Uncharted fa di tutto per essere innocuo

Uncharted si impegna all’inverosimile per non scontentare nessuno, e il risultato è che non riesce ad accontentare

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Uncharted è su Netflix

Uncharted di Ruben Fleischer si apre nel modo più prevedibile e sfacciato del mondo: gettandoci in medias res con una sequenza spettacolare e acrobatica, prima di staccare e tornare indietro nel tempo di qualche anno per riprendere il filo della storia dall’inizio. La sequenza vede Nathan Drake penzolare dal cargo di un aereo che sta per precipitare nell’abisso (come in Uncharted 3), per poi saltare a quindici anni prima, quando Nate e suo fratello Sam erano ancora due adolescenti sorpresi a rubare una mappa di Magellano da un museo a Boston (più o meno come succede in Uncharted 4). È difficile immaginare un modo più sfacciato per aprire un film dichiarando “per favore, fan del franchise, apprezzateci!”.

Per essere un film d’avventura su un archeologo ispirato in egual misura a Indiana Jones e a Lara Croft, Uncharted è inspiegabilmente timido. O meglio, una spiegazione c’è: è chiaramente un’opera che soffre del fatto di essere tratta da un videogioco, e in particolare da un videogioco a sua volta fortemente influenzato a più livelli dall’arte cinematografica; e di vivere in un mondo nel quale “film tratto da videogioco” è quasi sempre sinonimo di “disastro”, e nel quale progetti come Uncharted sono visti con uguale sospetto da chi conosce Nathan Drake e da chi non l’ha mai sentito nominare prima.

Proprio queste aspettative miste a pregiudizi macchiano tutto il progetto fin dall’inizio. Uncharted è un film che vuole fare felici i gamer e contemporaneamente soddisfare chi non toccherebbe un controller neanche con un paio di pinze. Si apre letteralmente come un videogioco (anzi due), ma lo fa nel modo più spettacolare e anche potabile possibile: con una delle scene madre di tutto il film, che verrà quindi riproposta più avanti in tutto il suo splendore e approfondita. È un trucchetto che i videogiochi usano spesso (e Uncharted in particolare ha quasi abusato), e nei videogiochi funziona perché regala da subito un assaggio di quelli che saranno i momenti più esplosivi del gioco per poi abbassare il volume e ricominciare quasi da zero.

In un film funziona un po’ meno, perché nel momento in cui vediamo Nathan salire su quell’aereo già sappiamo che nel giro di dieci minuti ce lo troveremo lì a penzolare, e saremo costretti a rivedere pezzi di scene che abbiamo già visto all’inizio del film; e rivederle senza rigiocarle non è altrettanto divertente. L’unica curiosità è scoprire come di preciso Nathan si salverà dal salto nel vuoto, ma anche qui: ovviamente lo farà, ma almeno in un videogioco c’è un ostacolo da superare tra lui e il non morire. In un film c’è solo da guardare, esclamare “ehi, ecco come!” e andare oltre.

Che è un po’ il riassunto di tutto il film: ci stiamo concentrando sulla scena iniziale perché è in qualche modo indicativa di tutti i problemi del progetto, ma potremmo andare avanti all’infinito. Prendete la scena immediatamente successiva all’opener, il flashback nel museo che ci presenta i fratelli Drake e la loro (vera o presunta) eredità. In Uncharted 4, questa scena (che era ambientata in una villa privata, ma poco cambia) arrivava in mezzo all’azione, quasi inaspettata, e interrompeva il ritmo travolgente di quanto visto fin lì per concedere un po’ di respiro, e approfittarne per riempire un po’ di potenziali buchi di trama con qualche spiegone ben mascherato.

In Uncharted inteso come film, la scena arriva subito all’inizio, quando ancora non sappiamo granché su Nathan Drake se non che è (probabilmente) sopravvissuto a un tuffo da un aereo. Non è quindi uno shock, ma un normale passaggio narrativo: il film inizia con un giovane Nathan e, molto didascalicamente, ci presenta tutte le motivazioni dietro le sue azioni – l’eredità di Sir Francis, l’influenza del fratello, il sogno dell’avventura et cetera. È una scelta indicativa del problema più generale di un film che sceglie di procedere sempre nel modo più lineare e leggibile, senza fare confusione di piani temporali e andando sempre dritto verso un’unica meta (il tesoro di Magellano).

Il problema è che tutto questo indebolisce il racconto: il bello di Uncharted era anche la sua struttura quasi da serie televisiva, che soprattutto nel terzo e quarto capitolo divideva la trama in segmenti non necessariamente collocati in ordine cronologico ma che servivano, svelando un segreto alla volta, ad aggiungere una patina di mistero a quelle che altrimenti sarebbero solo state delle lunghe e articolate cacce al tesoro. E cioè, ancora una volta, qualcosa che funziona meglio se si coinvolge la persona dall’altra parte dello schermo.

Quella del coinvolgimento, dell’immersione è quasi una banalità, ma è impossibile non citarla, perché è un altro dei motivi per cui Uncharted non funziona come vorrebbe. Una cosa è sentire nelle proprie mani il controller che vibra mentre Nathan Drake fa un salto apparentemente impossibile e riesce a rimanere miracolosamente aggrappato al bordo di un precipizio profondissimo; un’altra è guardare un attore che lo fa, con generoso aiuto di cavi. Nel primo caso c’è qualcosa in palio, anche fosse solo quei cinque minuti passati dall’ultimo checkpoint, e c’è quindi maggior propensione a sospendere l’incredulità; nel secondo si ha l’impressione di guardare un film di supereroi nel quale nessuno si è premurato di dirci che il protagonista è dotato di superpoteri.

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La struttura stessa dell’avventura perde quasi tutto il suo impatto nel passaggio di medium. Perché in un videogioco il continuo spostarsi in giro per il mondo in cerca di nuove rovine da scalare, puzzle da risolvere e tesori da depredare funziona: è meccanico, è segmentato, ma è anche una costante sorpresa – non si vede l’ora di finire un livello per la curiosità di scoprire in che modo quello dopo alzerà ancora l’asticella. In un film questo non funziona altrettanto, e non basta farci vedere la rotta dell’aereo su una mappa del mondo per farci sentire dentro Indiana Jones: a tratti sembra che Uncharted teletrasporti i suoi personaggi in vari punti del globo a seconda di cosa serve alla trama.

E non fateci neanche cominciare a parlare del modo in cui gli infiniti (e spesso facili, ma molto spettacolari) puzzle di Uncharted sono stati tradotti nel film. Perché purtroppo per renderli altrettanto bene sarebbero serviti coraggio, idee e la voglia di trasformare questi momenti nei set piece principali. Invece nel film di Fleischer sono semplici, scolastici, ficcati a forza nella trama giusto per dire “visto? Abbiamo fatto anche questo”. E il risultato, come per tutto il resto del film, non soddisfa né chi ha giocato ai giochi, né chi vuole solo vedere una bella avventura.

Quantomeno sembra che Tom Holland si diverta, nonostante il suo Nathan sia decisamente troppo ripulito e innocente; ed è sempre bello vedere un attore di questo livello farsi da solo i propri stunt. Qualche speranza per un sequel insomma rimane, ma ci vuole molto più coraggio di quello dimostrato da Uncharted.

Trovate tutte le informazioni su Uncharted nella scheda del film!

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