L'incontro con Chris Claremont: il suo rapporto con gli X-Men, la Marvel e i film Fox | LuccaCG19
Il primo press cafè di Lucca Comics & Games 2019 ha coinvolto il padre putativo degli X-Men, nonché leggenda vivente dei comics: Chris Claremont!
Caporedattore, ex grafico e illustratore, appassionato di tutto ciò che è narrazione per immagini.
Sorseggiando un tè, in perfetto stile british, ha inizialmente parlato di diversità, com’è normale che sia quando si tratta di mutanti, metafora di ogni possibile escluso temuto o odiato. X-Chris dice di aver prevalentemente preso spunto dalla multiculturalità che offre New York. Come ogni scrittore, anche lui prende spunto dalla vita, qualunque cosa o persona lo circondi. Anche qui, a Lucca: “Ho un taccuino sempre con me, quindi state attenti! Non scherzo.”
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Questione spinosa: il rapporto con il lavoro degli autori che hanno preso in mano gli X-Men dopo di lui e con la continuity in generale, croce e delizia dei comics:
Claremont - I fumetti americani sono lavoro su commissione. Qualunque cosa volessero Stan Lee e Jack Kirby, all'inizio, è la Marvel ora a comandare. Fino a quando ho scritto la serie ho avuto il controllo dei personaggi, poi sono arrivati altri autori. Da sceneggiatore ho un’opinione in merito, da impiegato un’altra. Come dicevo, qualunque decisione spetta alla Marvel.
Claremont - Ho lavorato sugli X-Men per vent’anni, ma iniziai come giovane attore, e per me Sir Ian McKellen era dio. Quando ho scoperto che non solo mi conosceva ma gli piacevano le mie opere, è stato fantastico! Conoscere sia lui che Hugh Jackman è stato fichissimo. Una settimana fa, a Londra, ho invece incontrato Patrick Stewart: altra figata! ...Noterete che non sto dicendo niente sui film.
Diciamo che alcuni erano molto buoni, altri meno. Giorni di un futuro passato era stupendo, mancavano giusto dei credits a caratteri cubitali per me e John Byrne, tipo quelli di Legion. Se non avete visto quella serie, fatelo. È meravigliosa!
Dark Phoenix è un buono, solo che non ha nulla a che fare con il fumetto. Non è colpa di Simon Kinberg, che l’ha scritto, o di Sophie Turner, che ci ha offerto una bella interpretazione. Probabilmente si è messa di mezzo la Marvel. Qualunque sceneggiatore vi potrebbe dire: Benvenuti a Hollywood! Ma si può sempre provarci di nuovo.
È stato chiesto allo sceneggiatore di Excalibur e Dio ama, l'uomo uccide quale sia il target ideale delle sue storie sugli X-Men:
Claremont - Il mio obbiettivo è semplice: i lettori devono identificarsi con i personaggi. Voglio arrivare a chiunque, a tutte le persone del mondo. Qui a Lucca ho firmato un fumetto degli X-Men per una bimba di otto anni. È stato il massimo per me.
C’era il Comics Code Authority, quando ho cominciato. Dovevamo produrre storie adatte a tutti, ma era okay: in fondo basta scrivere con una certa profondità. Il primo livello di lettura è per i più giovani, ma se torni a quei racconti da venticinquenne intravedi nei dialoghi e nelle immagini degli elementi a cui un bambino non farebbe caso. E se ci torni a quarant’anni, ne cogli altri ancora, magari mentre passi quegli stessi fumetti ai tuoi figli.
Le restrizioni ci hanno dato la possibilità di scrivere in maniera più sottile. L’hanno fatto Frank Miller, Walt Simonson e l’ho fatto anch’io, non è stato difficile. I fumetti di super eroi si rivolgono a un ampio mercato, ma potrebbero raggiungerne uno ancora più vasto. Inoltre, credo sia più interessante osservare una vignetta e chiedersi cosa stia succedendo al suo interno, piuttosto che esplicitare ogni cosa. Se Batman è nudo, non c’è bisogno di farlo proprio vedere.
Le celeberrime trame a lunga gittata di Chris Claremont... lo erano davvero? Sì e no, secondo le sue stesse parole.
Claremont - Tra il primo e l’ultimo numero da me scritti è racchiusa un’unica storia. Così come la vita, abbiamo momenti importanti, lunghe pause e digressioni, ma è un solo, grande racconto. Se fossi rimasto per altri trent’anni sulla serie, sarebbe stato lo stesso. Per me quei personaggi erano reali, quel che capitava loro era reale. Volevo di far sì che lo fosse anche per i lettori.
Potremmo dire che quello che avviene nel centesimo episodio ha un effetto sul numero #200, che a sua volta porterà delle conseguenze sulle pagine del #300, proprio come gli eventi sono interconnessi nelle nostre esistenze. Allo stesso tempo, svoltare a destra o a sinistra, quando sei a un bivio, può portarti in situazioni completamente diverse. Non sai mai dove ti ritroverai, perciò devi seguire l’istinto. Così ho fatto, quando scrivevo gli X-Men.
Puoi fare dei piani, certo, ma rientreranno sempre altri fattori. Quando Dave Cockrum iniziò a disegnare gli X-Men, Nightcralwer era il nostro personaggio preferito. Non era il tipico super eroe: aveva l’aspetto di un demone ed era il più religioso e spirituale del gruppo. Si potrebbe sintetizzare così: “Ho questo aspetto perché l’ha deciso Dio, e chi sono io per mettere in discussione quello che ha creato? Quindi tanto vale che mi goda la vita, date le cose straordinarie che so fare!”.
Per John Byrne, però, il migliore di tutti era Wolverine, canadese come lui, e voleva che fosse l’eroe più cazzuto in circolazione. Poi venne Frank Miller, e abbiamo parlato molto di quello che ci piaceva del personaggio, come avremmo potuto utilizzarlo. E così, ecco il Giappone!
Quando è stato creato il personaggio, gli artigli erano parte dei guanti, e in questo modo chiunque poteva indossarli e, in un certo senso, essere Wolverine. Un po' come l’armatura di Stark: chiunque la indossi è Iron Man. Io e Dave non eravamo d’accordo con tutto ciò. Così, nel numero #98 disegnò gli artigli che uscivano direttamente dalla mano, e la mia prima reazione fu scioccata, ma poi ne fui entusiasta. Era orribile e magnifico allo stesso tempo.
Pensate al primo film degli X-Men, quando Rogue chiede a Wolverine: “Fa male?”, e lui risponde: “Ogni volta”. Alla première, vedendo quella scena saltai sulla sedia gridando: “Sì!”. Mia moglie mi tirò un pugno e mi disse: “Smettila! Ti stai rendendo ridicolo!”, ma a me non interessava, perché in quel momento era stato definito il personaggio.
Considerate la cosa anche per quanto riguarda i fumetti: ogni volta che Wolverine sfodera gli artigli, è come se si stesse pugnalando. Immaginate cosa provi. Ecco perché è un momento che andrebbe dosato, dovrebbe essere raro. È come un pistolero che estrae l’arma, il momento chiave. Il lettore dovrebbe essere portato a esclamare: “Che figata!”, e allo stesso tempo dev’esserci un po' di repulsione, perché c’è pur sempre una componente di cattiveria in tutto questo.
Lo scrittore si è poi soffermato sull’importanza della figura dell’editor nella creazione di un buon fumetto:
Claremont - Il dono di editor come Louise Simonson o Ann Nocenti è che sono più brillanti degli scrittori: quando gli racconti la tua storia, capiscono subito cosa funzioni e cosa no.
Quando lavoravano insieme sui Fantastici Quattro, Jack Kirby aveva sempre un sacco di idee, e Stan costruiva la storia potando qua e là, così che andasse nella direzione giusta, con una voce potente. Jack odiava tutto questo, perché credeva che Stan stesse gettando via un sacco di roba buona.
La prese sul personale e passò alla DC Comics per fare i Nuovi Dei. Il primo numero... esplodeva di centinaia di idee brillanti! Il secondo proponeva... altre centinaia di idee! E il terzo? Pure! Dopo un dozzina di episodi, le teste degli editor della DC e dei lettori stavano per esplodere. Per quanto fosse tutto fantastico, nessuno riusciva a star dietro a Jack. Così tornò alla Marvel, e la DC sfruttò il suo lascito per i successivi venticinque anni.
Stan, Louise e Ann, sapevano carpire quel che di buono aveva da offrire l’autore per guidarlo e fargli porre le giuste domande, così da coagulare le idee in una storia potente. Come Denny O’Neil fece con il Daredevil di Frank Miller. Creare una buona storia è questione di sinergie: servono le giuste persone al posto giusto nel momento giusto, il che non capita spesso. L'importante è capire quando queste condizioni avvengono, sfruttare il momento e divertirsi!