Aquaman, la recensione del film

Abbiamo recensito per voi Aquaman, il film sul personaggio DC Comics diretto da James Wan

Alpinista, insegnante di Lettere, appassionato di quasi ogni forma di narrazione. Legge e mangia di tutto. Bravissimo a fare il risotto. Fa il pesto col mortaio, ora.


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La DC Comics giunge al sesto film del DCEU e consegna anche ad Aquaman, il suo super eroe degli oceani e dei mari, il proprio film in solitaria, dopo averlo introdotto in Batman v Superman: Dawn of Justice e presentato con tutti i crismi in Justice League. Il personaggio interpretato da Jason Momoa ha l'occasione di misurarsi con un'avventura tutta sua, che spiega le sue origini a spettatori e fan, facendoci conoscere, sin dal principio, soprattutto Arthur Curry e la sua personalità. Nella coralità della pellicola in cui aveva debuttato, Aquaman non aveva potuto fare molto più che assumere il ruolo del ribelle del super gruppo della Warner Bros.: spigoloso, difficile da trattare, poco avvezzo alla diplomazia e alle convenzioni. In questo nuovo film, resta sostanzialmente lo stesso.

Quel che scopriamo è il personaggio che sta sotto alla costante maschera da arrabbiato, un po' arrapato e un po' romantico. Grazie a un rimescolamento di carte, rispetto alle origini del personaggio narrate nelle varie versioni a fumetti, Arthur è il prodotto dell'amore di un padre umano e di una madre regina di Atlantide in fuga da un matrimonio combinato e senza amore. Un figlio bastardo che la vendicativa e rancorosa patria sottomarina, abitata da esseri di grande forza fisica e ancor maggiore potere tecnologico, non può accettare. Il giovane Arthur cresce con un padre guardiano del faro, impara a nuotare e a combattere come un vero atlantideo clandestinamente, grazie a un maestro che sfugge ai controlli della madrepatria e attende il ritorno della madre, tornata negli abissi per salvargli la vita. Inutilmente.

Quel che impara sono soprattutto i valori della superficie e, tra essi, l'eroismo. Diventa il difensore dei mari, un giustiziere che si occupa di pirati e criminali sopra e sotto il pelo dell'acqua, un uomo che ancora reca i segni di una grande ferita: essere cresciuto senza madre gli ha costruito una certa armatura intorno al cuore. Ecco, forse, il perché del suo machismo esibito, incarnato benissimo dalla fisicità di Momoa. Un tema che sarebbe stato interessante, ma che la sceneggiatura ignora del tutto.

Sicuramente, i natali contrastati di Arthur sono il motivo del suo ritorno ad Atlantide. Il fratellastro Orm, sta riunendo tutti i regni sottomarini per lanciare un attacco al mondo di superficie che rischia di mettere fine a entrambe le civiltà. Mera, la principessa degli abissi già vista in Justice League, pensa che Arthur sia l'unico a poterlo fermare, sfidandolo per il trono, recuperando un antico artefatto di grande potere, riunendo i popoli del mare divisi da secoli e facendo da ponte tra il mondo degli uomini e quello di Atlantide.

Ce l'ha fatta la DC a dar vita a un film credibile e appassionante, a dei personaggi convincenti e a raccontare una grande avventura piena di azione, emozioni e meraviglia? Quasi. Per circa venticinque minuti. C'è un frammento di questo film che ci ha sinceramente lasciato con gli occhi sgranati, felici di quello che stavamo vedendo. Sono quelli che raccontano la caccia di Mera e di Aquaman al magico tridente del fondatore di Atlantide. Lì il regista, James Wan, si è dimostrato a suo agio, ha saputo utilizzare tutti gli strumenti del Cinema horror per regalarci azione ben girata, una narrazione per immagini appassionante ed efficiente, bei movimenti di macchina accompagnati da una colonna sonora incalzante. Intrattenimento con delle idee, insomma. Una messinscena che, dal punto di vista dei paesaggi e delle immagini pure non è mai sotto il livello della sufficienza, durante la pellicola. I problemi stanno altrove.

Stanno, come da tradizione dei film DC, nei dialoghi onestamente puerili, spesso forzati, decisamente monocorde. I personaggi non hanno quasi mai nulla da dire, mentre si muovono sullo schermo, di davvero profondo. Questo parlare per luoghi comuni senza mai fare del dialogo, soprattutto durante le scene d'azione, un momento toccante, di umanità, è forse una delle cifre stilistiche più frustranti del cinema targato DC. Aquaman lo sottolinea, persino, accompagnandolo con le faccette di Momoa, che farebbero miglior figura in un film degli anni Ottanta, con la discutibile mimica di Amber Heard e con trovate comiche fuori tempo e fuori luogo. Certamente non aiuta la traduzione italiana, in cui abbiamo ravvisato delle pecche davvero di gravità inaudita. Ci perdonerà il collega che ha tradotto i dialoghi del film, certamente non un compito appassionante, ma rendere con "attrezzo" la parola "tool" riferita a un uomo è davvero un errore sesquipedale. "Non hai dovuto sposare un attrezzo". Rallegrati. Non sei coniugata a un rastrello.

Non meno difetti si trovano nella sceneggiatura, che ci trascina fuori dalla storia in diversi momenti, non riesce mai a venderci il villain, non sorprende e non inventa. I cinefili possono divertirsi ad andare a caccia di citazioni da quarant'anni di cinematografia blockbuster. C'è un po' di Indiana Jones, un po' di Alien, un po' di Godzilla, un po' di Star Wars, un po' di La Mummia. C'è persino un po' di Beverly Hills Cop e di Ponyo. C'è anche una scena romantica che sembra rubata alle peggiori commedie di terza fascia da high school americana. L'avreste mai detto? Soprattutto, come già in Wonder Woman e in Justice League, c'è tanta formula Marvel, riproposta all'inseguimento del successo del principale competitor, senza averne davvero il polso.

Il risultato è un film tanto sgangherato quanto magniloquente, privo di una struttura e di un'idea forte adatte a sorreggere il peso della sua retorica e di un'autoironia efficace. Ben poco convincente nel primo atto, già visto sotto quasi ogni punto di vista, con un finale in cui succedono cose di cui ci importa pochissimo a personaggi di cui ci importa ancor meno, sorretto faticosamente da tre grandi scene d'azione ben congegnate. Pretendere che avessero le spalle abbastanza larghe da tenere in piedi tutta la baracca era illusione.

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