Bloodshot Reborn vol. 2: La Caccia, la recensione

Abbiamo recensito per voi il secondo volume di Bloodshot Reborn, di Jeff Lemire, Butch Guice e David Baron

Fumettallaro dalla nascita, ha perso i capelli ma non la voglia di leggere storie che lo emozionino.


Condividi

Un tempo era l’arma definitiva, il killer per eccellenza, e il suo nome, Bloodshot, era sinonimo di successo. Nessuna missione gli era preclusa. Questo, però, rappresenta il passato, un tempo lontano che non appartiene più al protagonista di Bloodshot Reborn. Dopo aver incontrato la Geomante Kay McHenry, ed essersene innamorato, l’ha vista spirare tra le sue braccia, vittima della sua incapacità di difenderla; ma prima di morire, Kay ha liberato il corpo di Bloodshot dai naniti, restituendogli la vita che il Progetto Spirito Nascente gli aveva sottratto.

Oggi l’uomo che ha deciso di chiamarsi Ray Garrison – un nome che rappresenta l’unico incerto ricordo rimastogli – è stato strappato dal suo ritiro forzato al Red River Motel e si è lanciato all’inseguimento di un killer che ha le stesse fattezze del suo alter ego e che sta lasciando una scia di morte dietro di sé.

In questo secondo arco narrativo intitolato La Caccia, Bloodshot continua il suo viaggio lungo le strade del Colorado in compagnia di Magic - la fidanzata di una delle vittime - e braccato dall’Agente Hyot e dalla detective Diane Festival. I naniti sembrano attirare Ray, lo guidano in un percorso attraverso la violenza, il dolore e la morte portandolo lontano da quella libertà tanta agognata.

Pur non abbandonando del tutto l'introspezione, la profondità che accompagnavano i primi capitoli di questa splendida serie lasciano qui spazio all’azione, a un action-thriller itinerante attraverso motel e campagne che pescano dall’immaginario scenografico della letteratura statunitense. Il comando è ben saldo nelle mani di Jeff Lemire, autore di grande spessore che sta portando avanti un processo di crescita del personaggio plasmando una figura che, abbandonate le ambientazioni militari o da spy story, sta cercando una sua dimensione in contesti del tutto inediti.

Dalla dipendenza verso alcol e droghe per stordire i pensieri, all’analisi introspettiva, strumento che permette di affrontare le avversità e superarle, la trasformazione porta il protagonista ad allontanarsi dagli spettri del passato e a intravedere la possibilità di tornare a vivere, di fidarsi di chi lo circonda ed essere importante per qualcuno.

Il cambio di registro stilistico avviene anche sotto l’aspetto grafico, dove lo stile realistico e plastico di Mico Sauyan viene sostituito dal tratto minimale di Butch Guice. Il contrasto tra i due artisti è evidente, e lo stile di quest'ultimo - che male si sarebbe adattato al precedente corso del personaggio - viene qui esaltato da un’avventura on the road che strizza l’occhio al noir.

Continua a leggere su BadTaste