Wyatt Earp è prigioniero della forma
Wyatt Earp di Lawrence Kasdan è un sontuoso western classicista intrappolato nella forma e con meno sostanza di quanto sembri
Avendo di recente rivisitato Tombstone sulla scorta delle dichiarazioni di Kurt Russell relative al suo status di “uno dei migliori western di sempre”, ci sembrava giusto completare l’opera andando a rivedere anche un film che esiste per via proprio per via di Tombstone, e che uscì al cinema appena un anno dopo nella speranza di imporsi come versione definitiva delle vicende dell’ex uomo di legge diventato criminale vendicatore. Stiamo parlando di Wyatt Earp di Lawrence Kasdan, un western ultra-classico che più classico non si può con un cast da far girare la testa, una regia tanto vecchio stile quanto illuminata, e… una sceneggiatura che non rende giustizia né al dispiego di mezzi e talento, né in realtà alla figura dello stesso Wyatt Earp, che viene fin troppo appiattito sul suo ruolo di eroe e quasi mai problematizzato come invece faceva il film di Cosmatos.
Wyatt Earp nella prateria
Fateci dire fin da subito che stiamo parlando di un cosiddetto “filmone”, kolossal nel budget, nelle ambizioni e soprattutto nel respiro epico: la sceneggiatura di Dan Gordon, scritta in collaborazione con lo stesso Kasdan, sceglie di seguire tutte le fasi della vita di Wyatt Earp partendo dalla sua adolescenza, e si picca di non sorvolare su nessuna: nel corso delle tre ore e passa di film lo vediamo ancora teenager nell’Iowa, dove gioca a fare una guerra alla quale vorrebbe partecipare contro la volontà del padre, ma lo vediamo anche fare l’arbitro di boxe, l’imprenditore minerario, il cacciatore di bisonti.
E soprattutto l’uomo di famiglia: dove Tombstone, pur ruotando sempre intorno ai baffi di Kurt Russell, era in ultima analisi un racconto corale, Wyatt Earp è prima di tutto la storia di un uomo la cui principale regola di vita è “la famiglia è l’unica cosa che conta”. Il film di Kasdan ce lo presenta quindi come una sorta di patriarca autoeletto, un uomo irrequieto e sempre in cerca di una nuova occasione da inseguire ma al contempo talmente legato a doppio filo al resto della famiglia da portarsela in giro ovunque, con la complicità dei fratelli e per la disperazione delle loro mogli (ivi inclusa la sua, la povera Mattie, il personaggio più maltrattato e svilito del film). Questo significa tra le altre cose che Wyatt Earp è sì un western, ovviamente, ma molto lontano dai suoi contemporanei – dal già citato Tombstone a Gli spietati passando per Pronti a morire di Sam Raimi (sul quale magari torneremo a breve…). È un film che guarda al western più classico, a Howard Hawks e John Ford, ma anche (davvero!) a La casa nella prateria, e ai grandi affreschi storici dell’epoca d’oro di Hollywood: Wyatt Earp è più vicino a Via col vento che a Peckinpah, un approccio che negli anni Novanta cominciava a risultare un po’ sorpassato.
Tutto Wyatt minuto per minuto
Non c’è ovviamente nulla di male a virare stilisticamente verso il passato ignorando di fatto quello che il resto di Hollywood stava cercando di dire a proposito del western e del concetto di West. Kevin Costner volle fortissimamente volle Wyatt Earp perché era rimasto deluso da Tombstone, che pure gli era stato offerto dalla produzione prima ancora di contattare Kurt Russell: pensava che fosse una sceneggiatura troppo moderna, che metteva in discussione la famiglia Earp e Wyatt in particolare più che celebrarlo. Il grosso problema è che, all’atto pratico, questo si traduce in un film nel quale ogni scena esiste allo scopo di dirci qualcosa sul suo protagonista, anche a scapito della generale scorrevolezza del racconto.
Tombstone tagliava, sorvolava, accennava. Wyatt Earp vuole raccontare tutto, e per farci stare questo tutto Kasdan è costretto a imbastire un film molto meccanico, con un flusso narrativo dettato solo dallo scorrere del tempo e dall’affastellarsi di un episodio dopo l’altro. Sono tutti funzionali, come detto, a spiegarci come mai Wyatt Earp abbia deciso di diventare, alla fine della sua carriera, un angelo della morte e un criminale, ma “parlano” solo con il protagonista, mai tra loro. In questo modo molti personaggi esistono solo come funzioni di trama e vengono accantonati e recuperati quando serve: la sensazione fortissima è di guardare un film su una persona vera, circondata da una serie di maschere e archetipi che scomparirebbero se Wyatt Earp smettesse di avere bisogno di loro.
Splendide cornici
A tratti sembra che a Kasdan interessi più la forma che i suoi personaggi. Ogni inquadratura è composta con un’attenzione maniacale, ogni campo lungo o lunghissimo rimanda a questo o quel classico… è una splendida cornice (metaforicamente parlando) piena di splendide cornici (paesaggisticamente parlando) entro la quale si muove questa figura quasi mitologica e sicuramente eroica. Se di Tombstone dicevamo che “è come dovrebbe essere, e tutto è all’ennesima potenza; ma non dice nulla di nuovo che non fosse già stato detto da altri autori precedenti”, il discorso vale moltiplicato per cento per Wyatt Earp. È un po’ un problema insito nella scelta stessa di raccontare la vita di una delle figure più famose del XIX secolo statunitense: come si fa, nel 1994, a dire qualcosa di nuovo su un personaggio che già nel 1946 era stato sostanzialmente esaurito in Sfida infernale di John Ford?
Alla fine il problema principale di Wyatt Earp è questo: sa di non avere alcuna possibilità di dare una lettura nuova e interessante sulla figura del suo protagonista, e quindi si accontenta di mettere in scena la sua vita con estrema attenzione biografica ma con pochi, pochissimi guizzi – come se fare “un film come una volta” bastasse a portare a casa la pagnotta. In questo senso, fateci spendere due parole per quello che, sotto sotto, è l’elemento migliore del film: il Doc Holliday di Dennis Quaid, che per l’occasione si traveste da Nick Cave e tira fuori una prestazione che (lo diciamo? Lo diciamo) fa impallidire anche quella di Kevin Costner, perfetta faccia da western eroico ma un mediocre Wyatt Earp. Quaid è l’unico che esce un po’ dal seminato e prova a infondere una personalità al suo personaggio, a darne una sua versione invece che limitarsi a fare il compitino. Ci fossero stati più Dennis Quaid, Wyatt Earp avrebbe potuto essere almeno un interessante incontro tra classicismo formale e interpretazioni post-moderne (e post-Gli spietati).
Così com’è, invece, e pur ribadendo che “avercene oggi”, il film di Lawrence Kasdan perde il confronto con quello di Cosmatos, per non parlare di quello di Eastwood. Come promesso, magari torneremo sulla questione per buttare anche Raimi nel mucchio.