Willow, il vero sogno nel cassetto di George Lucas
Willow di Ron Howard è il fantasy tolkieniano che Lucas sognava di fare fin da quando stava ancora scrivendo Star Wars
Quando nel 1971 George Lucas decise che avrebbe voluto scrivere e dirigere un’avventura di fantascienza, scelse come primo modello di riferimento i fumetti di Flash Gordon. Non essendo riuscito a ottenere i diritti per un adattamento diretto, nel 1973 Lucas decise quindi di mettersi in proprio e di scrivere una storia originale, ispirata ai fumetti di Alex Raymond ma anche a una lunga serie di altre opere di ogni tipo, dalle avventure di John Carter ai film di Akira Kurosawa alle teorie di Joseph Campbell sul viaggio dell’eroe. Nella lista c’era anche un’altra ispirazione piuttosto evidente: quella del Signore degli anelli, che rende Star Wars (anche) un fantasy nello spazio. Curiosamente, Lucas ha discusso di rado di questa specifica influenza, ma se volete avere una conferma, indiretta ma indiscutibile, dell’importanza dell’opera tolkieniana sull’universo di Guerre stellari non c’è nulla di meglio che riguardare Willow.
Tutto questo per dire cosa? Che le astronavi e lo spazio profondo non devono distrarre dal fatto che Lucas fosse appassionato di fantasy e di Tolkien in particolare. E infatti, nel 1972, mentre ancora stava lavorando alla nascita di Star Wars, scrisse anche una prima versione di quella che sarebbe poi diventata, sedici anni dopo, la sceneggiatura di Willow, una collezione, dice lui, di “episodi mitologici molto noti e impacchettati per un’audience giovane”. Lucas ha sempre diretto (sempre parole sue) “film di persone piccole e poco importanti che lottano contro il sistema”, e Willow è… be’, questa idea, ma presa molto alla lettera.
Non è difficile vedere le influenze tolkieniane in questa storia: il piccolo popolo contro i giganti (che poi sono semplici umani), l’oggetto desiderato da tutti tranne che dalla persona che lo sta trasportando (che poi è una bambina, ma talmente piccola da non avere alcuna agenzia e poter quindi essere paragonata a un fardello), il viaggio dell’eroe, il ritorno a casa dopo aver visto il resto del mondo… E certo, Willow non è di George Lucas ma di Ron Howard, e la sceneggiatura non è di George Lucas ma di Bob Dolman; ma la storia alla base di tutto è di Lucas (che è anche produttore, ovviamente), e il film è il fantasy che sognava di fare fin dai tempi di Star Wars.
Fortunatamente, il valore di Willow non è limitato alle questioni di principio. Il 1988 era la fine dell’epoca d’oro del fantasy al cinema, con i successi relativi (quando non direttamente flop) di film come Labyrinth e Krull che stavano ammazzando il genere. Willow può quindi essere visto come un ultimo (uno degli ultimi) disperato tentativo di mantenere il fantasy rilevante, mischiandolo con altre influenze e provando a dargli un tono diverso da quello ultra-cupo che il genere aveva mantenuto per tutti gli anni Ottanta.
Non che Willow non sia cupo, anzi: quando deve fare paura ci riesce, soprattutto se lo inquadrate per quello che era in origine, cioè un film per bambini e ragazzi. È un film di scheletri intrappolati in gabbie appese in mezzo al nulla, di cadaveri divorati dagli uccelli, di nebbie e di bestie feroci che ti inseguono nella foresta come fossero Nazgûl. Colpisce particolarmente la forma del drago che domina lo spettacolare finale del film: bicefalo e deforme, non ha nulla dell’eleganza e del fascino che hanno di solito queste bestie. (colpisce anche che il drago si chiami Eborsisk e abbia due teste, riferimento evidente a Roger Ebert e Gene Siskel, ma d’altra parte il generale cattivo si chiama Kael, come Pauline: Lucas aveva un rapporto curioso con la critica dell’epoca).
Willow però è anche un film divertente, a tratti comico e pieno di gag anche molto semplici: l’Unico Anello, per esempio, non ha mai vomitato in faccia a Frodo. Né Aragorn è mai stato particolarmente simpatico o brillante, a differenza del suo omologo nel film, il Madmartigan di Val Kilmer, un perfetto antieroe che spara one liner mentre affetta i nemici come se fossimo in un film Marvel. Willow beneficia di questi bruschi scarti di tono, degli inserti improvvisi di umorismo in situazioni disperate, e anche della voglia di divertirsi con della sana slapstick comedy.
Più di tutto, Willow è tolkieniano nel modo in cui intendeva il termine anche Lucas: è un film che racconta una storia piccola, l’avventura di un signor nessuno, e la ambienta in un mondo che ha chiaramente molte altre storie da raccontare. Tolkien si è sostanzialmente inventato il world building nell’accezione più moderna e pop del termine, e Lucas ha sempre sognato di raccogliere la sua eredità, come dimostrano i suoi piani pluriennali per la saga di Star Wars. Se Willow avesse avuto più successo di quello (comunque discreto) che ha avuto, potete stare certi che avremmo avuto altri due capitoli, e magari una serie di materiali “di contorno” utili a espandere la mitologia e a caratterizzare meglio il mondo dove si svolge il film.
Ora l’arduo compito è affidato all’imminente serie TV, scritta ancora da Bob Dolman e che promette di trasformare Willow in un universo cinematografico (e televisivo) fatto e finito, espandendone la mitologia e portandone avanti la storia. È un peccato che Lucas non sia coinvolto direttamente, ma siamo sicuri che sarà comunque felice: finalmente la sua storia di piccoli uomini e grandi profezie riceverò il trattamento tolkieniano che lui sognava da quarant’anni.
Trovate tutte le informazioni sulla serie di Willow nella nostra scheda!