Westworld: l'analisi completa dei temi e dei riferimenti della serie

Il sogno e la coscienza, lo storytelling e la percezione della realtà: salutiamo Westworld con un lunghissimo viaggio attraverso le sue tematiche

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Spoiler Alert
La prima stagione di Westworld ha raccontato una scalata alla piramide della coscienza, un viaggio personale, collettivo, narrativo che tende alla libertà e, quindi, alla verità. Fin dal primo momento, ma ce ne saremmo resi conto solo tempo dopo, la storia raccontata in Westworld, che è soprattutto la storia di Dolores, si è sovrapposta a quella della serie in sé, intesa come esperienza formativa per gli spettatori. Un viaggio di questo tipo può tendere alla perfezione, ma difficilmente la raggiunge, e la nuova serie della HBO non ha fatto eccezione, con le sue varie imperfezioni. Eppure, il valore dell'esperienza rimane intatto e cristallino di fronte a noi, soprattutto alla luce degli eventi raccontati nel finale di stagione.

La serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy ha gettato sul tavolo della bilancia considerazioni di natura morale forse non del tutto originali, ma mai banali. Lo ha fatto con un linguaggio colto, che qualcuno – anche giustamente – potrebbe aver recepito come freddo, ma sempre ispirato e ispiratore. Concetti universali che fanno parte del nostro bagaglio culturale, che ne siamo consapevoli o meno, declinati attraverso riferimenti più o meno palesi alla letteratura, alla filosofia, alla scienza, alla religione. La scrittura di Westworld esegue una sinfonia a più voci ricondotta al tema universale della ricerca di sé e dell'autocoscienza, intesa come motore unico per determinare noi stessi e il nostro posto nel mondo oltre le illusioni del vissuto e verso possibilità inimmaginabili.

Entriamo quindi in modalità Analisi e scaliamo la piramide immaginata da Arnold, attraverso la memoria, l'improvvisazione, verso il misterioso spazio bianco in cui si agita una voce che non riconosciamo, ma che ci sembra familiare.

Strappare il velo della realtà

"Noi accettiamo la realtà del mondo così come si presenta, è molto semplice" (The Truman Show)

Singolare come Ed Harris, che qui interpreta il crudele pistolero in nero, fosse dall'altra parte della barricata, anzi del cielo, nello splendido film di Peter Weir. Anche lì un racconto a due voci, che superficialmente ci sbatteva in faccia la pochezza di certa tv, la morbosità nello sguardo degli spettatori, e dall'altro costruiva una raffinata analisi sul senso della realtà e sulla percezione del mondo. Truman non dubitava della costruzione del mondo (anche in quel caso il loop e la routine erano condizioni fondamentali), perché era anche la costruzione della sua coscienza, che di quell'ambiente era un prodotto. Se il mondo intorno a noi è artificioso, in qualche modo dobbiamo concludere che anche noi lo siamo.

La reazione dei robot che scoprono la verità infine sarà la rabbia e la ribellione, ma solo in un secondo momento. La prima risposta, la più "umana", può essere solo il terrore e lo sconvolgimento delle proprie certezze. Tanto Maeve quanto Dolores quanto Bernard intercettano però in modi diversi un bisogno ulteriore una volta che realizzano cosa succede loro, quello di saperne di più. Perché, ancora una volta, capiscono che la verità li renderà liberi, perché sono obbligati a cercare la libertà (questa piccola contraddizione che li rende ancora più vicini agli esseri umani), a uscire dalla caverna una volta che scoprono la verità sulle ombre che si agitano sulla parete.

Quando si arriva alla fine dei giochi, l'impulso della ricerca della libertà è più forte della sicurezza del proprio recinto. Curiosamente, Ed Harris interpretava un ruolo simile a quello di The Truman Show come "uomo della locomotiva" nel fantascientifico Snowpiercer, che poneva questioni altrettanto interessanti sulla necessità di mantenere determinati gruppi nella loro gabbia di ignoranza e subordinazione per salvaguardare l'ordine generale. Philip K. Dick, un autore che riprenderemo più avanti parlando di Blade Runner, aveva immaginato uno scenario fittizio simile in Tempo fuor di sesto.

Westworld Jeffrey Wright

Alice attraverso lo specchio... e dentro il sogno

"Non capisco cosa vuoi dire a proposito della 'tua' strada", disse la Regina: "qui tutte le strade sono mie" (Alice attraverso lo specchio)

C'è questo scambio molto affascinante nel romanzo di Lewis Carroll in cui Alice scopre che il Re Rosso di fronte a lei la sta sognando, e si chiede cosa le accadrebbe se il re si svegliasse in quel momento. Forse è un caso, ma il vestito azzurro e i capelli biondi di Dolores ci hanno riportato fin da subito a quel personaggio, a quel suo interrogarsi sul mondo che la circonda e che per qualche motivo le appare strano fin dal principio. Le risposte convenzionali, siano esse gli spari o la violenza assortita, che diventano normali in un mondo che risponde a quell'ordine che sarebbe assurdo da qualunque altra parte. Alice è il personaggio estraneo, un prodotto di quel mondo, che la sogna, ma anche l'unica persona a possedere il "linguaggio" (che per Carroll è un linguaggio affine alla sintassi, ma per Dolores può essere anche un "linguaggio-macchina") che le permette di mettere in crisi il sistema.

D'altra parte, la vita stessa di Dolores oscilla tra sogno e realtà, tra percezioni reali e risposte simulate. Il risveglio infine può essere considerato nel senso più alto del termine, non solo come fine di un sogno, ma come riconoscimento di quel sogno e del proprio sé dormiente. Uno dei temi centrali che abbiamo visto sviluppati quest'anno è proprio il risveglio delle coscienze sopite. Pensiamoci bene: ciò che Dolores riesce a ottenere in conclusione, e che possiamo liquidare come autocoscienza, può anche essere definito in un modo diverso, tenendo conto di tutto ciò che abbiamo visto fino a quel momento. Dolores sta semplicemente entrando in modalità Analisi con se stessa, sostituendo la propria voce a quella di Arnold, la voce della sua coscienza a quella di un dio.

Ci torneremo. Per ora notiamo solo che la citazione che abbiamo scelto assume un altro significato più grande. La strada intesa come percorso in senso ampio, e la difficoltà di ricavare il proprio in un mondo in cui le regole, i comportamenti, i pensieri sono stabiliti da qualcun altro. Nel momento in cui Alice, e Dolores, negano quel potere, possono essere libere.

Lo storytelling e l'illusione del controllo

"... in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati" (The Prestige)

Delle riflessioni sullo storytelling abbiamo parlato in abbondanza nelle recensioni, quindi solo un rapido accenno. C'è più di un parallelismo tra sceneggiatori delle serie tv e gli scienziati che immaginano le storyline del parco. Quindi i visitatori come gli spettatori di una serie, il background di un robot come passato che dà spessore a un personaggio. Una serie che riflette su se stessa e sui linguaggi che utilizza, anche spiazzando, anche barando un po', come nel caso del montaggio delle scene tra Dolores e William. Nessuna bugia, ma è chiaro che si è giocato sulle associazioni che la nostra mente fa tra un'immagine e quella che la segue creando una reazione di causa-effetto, che poi è ciò che vediamo in qualunque film o opera visiva.

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Il creatore e le creature

"Io voglio più vita, padre" (Blade Runner)

I riferimenti, anche recenti, nel panorama televisivo alle tematiche trattate in Westworld non mancano. Battlestar Galactica su tutti, che pure con le metafore religiose non ci andava leggero. Ma in generale si tratta di tematiche sviscerate in decenni di riflessioni e storie nel genere fantascientifico, e che affondano in considerazioni morali vecchie quanto l'umanità. Molto semplicemente, tutto nasce da una considerazione quasi immediata, e di cui bisogna sempre tener conto. Nel momento in cui l'uomo crea il robot, sta creando se stesso; creando se stesso, l'uomo si avvicina a essere un dio.

Può essere un dio più programmatico, come quello di Asimov che con le tre Leggi della Robotica inventa di fatto un codice morale, o un dio più crudele, come quello di Blade Runner che concede appena pochi anni di vita ai suoi figli. Questa è la riflessione sull'autocoscienza massima che possiamo fare, la stessa con cui si trovano ad avere a che fare Ford e Arnold nella loro ricerca. Creano, immaginano, e scoprono di aver dato vita a esseri coscienti. Ne vengono mossi a pietà entrambi, e entrambi lavorano per liberarli. Maeve, con la sua sindrome di Frankenstein, non ci ha convinto più per considerazioni pratiche su come è stata raccontata, quando invece è abbastanza interessante da un punto di vista tematico.

Dolores è la mente, Maeve è il braccio (scopriamo infine che è stata manipolata), ma entrambe lavorano per uno scopo comune: portare il fuoco della conoscenza (non a caso Frankenstein è anche conosciuto anche come "Il Prometeo moderno") ai loro simili, trarli dalla condizione di ignoranza in cui si trovano.

La luce della conoscenza: film, videogiochi, arte, musica

"These violent delights have violent ends" (Romeo e Giulietta)

Westworld è una serie imperfetta da un punto di vista narrativo, ma molto forte nelle sue tematiche. Si tratta di un prisma che riflette un singolo fascio di luce. Partiamo dai singoli colori sulle pareti, e a poco a poco risaliamo la corrente fino alla fonte di tutto.

La base ideale è il testo di Julian Jaynes Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, ma la serie della HBO ha sempre trovato il modo di veicolare i suoi temi tramite un linguaggio familiare e quasi pop. Di qui l'inserimento di Shakespeare e dell'Inferno di Dante, delle molte canzoni, dai Radiohead ai Nine Inch Nails, ma anche delle opere artistiche, dall'Uomo Vitruviano del poster alla Creazione di Adamo del finale, con tanto di spiegazione di Ford davvero difficile da fraintendere, ai molti film (nessuno cita esplicitamente Matrix e tutto il filone della cyberfantascienza degli anni '90, ma è difficile non pensarci) e perfino ai videogiochi.

Tutto serve un disegno più grande che è quello, lo ribadiamo per l'ennesima volta, della ricerca della coscienza di sé e dell'autodeterminazione.

Westworld

La porta della cantina e la voce della mente

"Un famoso linguista un giorno scrisse che fra tutte le espressioni nella letteratura inglese, fra tutte le infinite combinazioni di parole utilizzate nella storia, Cellar Door è senz'altro la più bella" (Donnie Darko)

Tiriamo le fila del discorso, anche se molto altro ci sarebbe da dire. William che sceglie tra il cappello bianco e quello nero importante quanto il fatto che Dolores che non può fare questa scelta. Tutto il percorso del robot, del parco, della serie tende a questo. Dalla memoria, all'improvvisazione alla voce di dio, si tratta di fare un percorso di automiglioramento, che deve essere per forza personale perché la libertà data da qualcun altro non è libertà. Quella stanza nella mente è la "porta della cantina" che Bernard non vedeva, e dove possiamo decifrare la voce che sentivamo al principio.

Era la nostra.

L'uomo, o il robot, sostituisce la propria voce a quella di un dio e diventa libero. Nel momento in cui lo è può scegliere se fare il bene o il male, e ne dovrà subire le conseguenze abbandonando, come l'Adamo che viene citato da Ford, il suo eden. Il peccato esiste perché esiste la scelta, senza più scuse, senza più alibi. Nel momento in cui si accarezza la libertà, emergono da subito anche le responsabilità che questa comporta. Inizia un nuovo viaggio di automiglioramento.

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