Ci sono voluti 10 anni per arrivare a Gomorra 2, ma ce l'abbiamo fatta

La seconda stagione di Gomorra è il culmine di un discorso sul genere criminale che Stefano Sollima sta facendo da almeno 10 anni

Critico e giornalista cinematografico


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Nella seconda puntata della seconda stagione di Gomorra, Genny e Pietro Savastano si trovano lontano da casa, in terra straniera. In Germania non hanno nemmeno una briciola del loro potere, non hanno i loro uomini e devono dimostrarsi ancora in grado di essere criminali prima che boss, dotati di quell’intuito e della capacità di sopravvivere necessari. Braccati dalla polizia si rifugiano in un bosco, così nero che ci sembra di vederli a fatica (ma in realtà li distinguiamo bene, un grande colpo di fotografia) e lì il figlio che il padre cerca di sottomettere e comandare, senza dire una parola, nel momento del bisogno lo carica in spalla e lo porta con sè per fuggire dalla polizia. Una dimostrazione silenziosa di pura potenza fisica, in un mondo di intrighi è con la forza che si dimostra di essere adeguati. Salvatore Esposito sembra un bufalo caricato all’inverosimile di un peso pari al proprio. Una scena incredibile di un corpo che ne domina un altro sollevandolo nella notte, come Enea che porta il padre Anchise sulle spalle in fuga da Troia incendiata.

Non parole, fatti. Non battute e spiegazioni, come farebbero polizieschi di quart’ordine, ma immagini. Un fantastico atto d’amore non violento che in realtà, come tutto in Gomorra, nasconde violenza e strategia di dominio.

Non si arriva di colpo a queste vette di sintesi, specie se dietro non c’è niente, se si è i primi a tentare qualcosa di così audace e internazionale. Quello che la seconda stagione di Gomorra ha concluso è infatti un discorso più ampio delle 12 puntate che l’hanno composta e anche più ampio della due stagioni che abbiamo visto. Si tratta di un discorso sul genere criminale che Stefano Sollima sta facendo da almeno 10 anni, da quando nel 2006 girava la serie Crimini per la RAI e poi, due anni dopo, passava a Romanzo Criminale, per Sky, fino ai due film per il cinema ACAB e Suburra e solo infine a Gomorra. È una tesi di laurea sperimentale su come si possa rifondare da capo un genere in un paese che sembra averlo perso, un’evoluzione personale che è anche evoluzione di un’industria. Nel 2006 Gomorra non sarebbe stato proprio tecnicamente realizzabile.

Quello che la seconda stagione di Gomorra ha concluso è infatti un discorso più ampio delle 12 puntate che l’hanno composta

Quando arrivò Romanzo Criminale fu un fulmine a ciel sereno nelle nostre vite di spettatori intristiti, un lampo di speranza, eppure rivisto oggi contiene ancora qualche piccola ingenuità da tv generalista. Guardato con gli occhi pieni di Gomorra non è più così “nuovo”, risulta semmai un ponte tra il vecchio mondo delle fiction e il nuovo. Un ponte che Gomorra fin dai primi episodi ha finito di costruire, staccando alla televisione a pagamento italiana un biglietto per il salotto buono della serialità mondiale. Questo non significa che ora tutto ciò che viene prodotto sia di livello internazionale, ma che abbiamo visto che può essere fatto e abbiamo visto come.

Eppure se la prima stagione di Gomorra era inattesa e sorprendente, sia nella trama che nella messa in scena, è la seconda ad aver concluso il processo di distruzione delle catene della fiction, liberandosi definitivamente di luoghi comuni, obblighi narrativi, frasi fatte e convenzioni.

Sono dettagli narrativi ma anche di messa in scena a dimostrarlo. Ad esempio nella nuova stagione il più trito degli obblighi narrativi, l’establishing shot, quell’inquadratura che mostra un ambiente per annunciarlo prima di fare vedere la scena che si svolge al suo interno, così che il pubblico capisca dove si trovi (qualsiasi serie con tanti luoghi ne è vittima, incluso Il trono di spade), viene risolto con panoramiche immobili dall’alto, vicino ai tetti o in cima a quelle che sembrano gru, ampie inquadrature ad alto contrasto, immobili paesaggi guardati dall’alto verso il basso. È una mossa inedita, una costante della stagione e l’ennesimo tocco grazie al quale Gomorra si differenzia da tutto il resto, imponendo il suo marchio visivo su ogni elemento della messa in scena.

Stefano Sollima per fare questo ha dovuto raccontare prima il crimine d’epoca, poi la violenza della polizia, poi la violenza della politica, cioè il potere in tutte le sue forme, così da maturare la visione utile a creare l’universo Gomorra. Contrariamente alle fiction infatti nel mondo di Gomorra non valgono le regole della vita quotidiana né vigono i medesimi valori, perché quel racconto fonda le proprie regole da sè e obbliga lo spettatore ad impararle per comprendere la storia.

Per arrivare a ciò sono state necessarie sia le precedenti serie criminali sia Un Posto al Sole, uno dei luoghi in cui Sollima si è fatto le ossa, prodotto industriale puro che, sebbene sia lontano anni luce dai toni delle sue serie future, vive anch’esso come in una bolla, in un mondo tutto suo. Del resto ogni grande serie tv contemporanea è un po’ melò, incorpora cioè in maniere strane e paradossali elementi da soap (il rimando continuo, l’esposizione dei sentimenti, la necessarietà di una dimensione emotiva in risalto).

Senza timore di uscire sporca di fango questa serie non è schizzinosa

È però da mosse del genere che si crea una mitologia originale, dalle immagini prima e poi da una trama che viva bene nell’estetica di quell’universo. Infatti la storia di come all’interno della famiglia Savastano con fatica venga passato il testimone dal padre al figlio, di come un intero regno sia sprofondato nel caos quando le sue fondamenta sono scosse, riprende il crimine non più come antitesi alla legge ma come regno mitologico. Forse per questo in molti criticano quella che chiamano “visione assolutoria dei criminali”, perché là dove la fiction tradizionale raccontava il mondo criminale visto dal punto di vista dei TG, guardato con l’indignazione della società civile e l’ingenuità di chi non vuole sporcarsi le mani, Gomorra ci finisce dentro fino al collo. Senza timore di uscire sporca di fango questa serie non è schizzinosa e sa bene che dietro alla cronaca, dietro alle notizie d’attualità si nasconde un universo fantasy di gerarchie, rituali e immagini che non crederemmo possibili (boss Salvatore Conte e la sua processione). Così avviene il passaggio da una macchietta ad una mitologia, trovandogli un vestito, cioè un mondo, tutto suo.

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