Vita, morte e miracoli di Stuart Gordon, ri-animatore
Ricordiamo Stuart Gordon, figura chiave per un certo cinema che negli anni 89/90 soddisfò gli appetiti di chi non si riconosceva appieno nel mainstream
Gli inizi di Stuart Gordon: il teatro
Stuart Gordon nasce a Chicago nel 1947, e comincia la sua carriera a qualche centinaio di chilometri da lì, a Madison, Winsconsin, dove sogna di studiare cinema e finisce invece con il laurearsi in teatro. Sempre a Madison fonda la sua prima compagnia teatrale, dal delicatisimo nome di Screw Theater, e ancora a Madison, nel teatro della sua università, comincia a mettere in scena il suo primo spettacolo. Si intitola The Game Show e prevede di rinchiudere l’audience in sala e cominciare a umiliarla, con insulti, botte e altre amenità tipo alzare la temperatura del teatro a livelli insostenibili. Lo scopo? Vedere quanto ci mette il pubblico a stufarsi, ribellarsi e andarsene. Sapete cos’è il secondo spettacolo dello Screw Theater? Una versione psichedelico-politica di Peter Pan che comprende messaggi di protesta neanche tanto velati contro l’intervento americano in Vietnam, e un balletto con sette danzatrici nude che viene usato come scusa dalla polizia per interrompere la messa in scena e arrestare Gordon e la sua futura moglie Carolyn Purdy. La galera segna la prima svolta nella carriera di Gordon, che abbandona Madison per tornare nella natìa Chicago, dove comincia a frequentare, diciamola così, i teatranti locali: gente come David Mamet, appunto, che al tempo, nelle parole di Gordon, «scriveva una sceneggiatura nuova al giorno e veniva a portarmele dicendo “questa devi leggerla! Vincerà il Pulitzer!», ma anche futuri attori nominati all’Oscar come William H. Macy e vere e proprie leggende come Bill Murray e Dan Aykroyd. Un ambiente estremamente stimolante, per usare un eufemismo, nel quale Gordon si sente finalmente a casa e che lo avvicina sempre di più a quello che è il suo sogno da sempre: girare un film per il cinema.
Re-Animator e la trilogia italiana
L’occasione della vita gli arriva nel corso di una discussione tra amici, durante la quale Gordon si lamenta che al cinema ci sono troppi film di vampiri (odiare Twilight before it was cool: check) e che sente la mancanza di un bel film su Frankenstein. Uno dei presenti gli chiede se abbia mai letto Herbert West, Re-Animator, un racconto di HP Lovecraft pubblicato in sei puntate su Home Brew nel 1922; Gordon ammette che no, nonostante da piccolo amasse Lovecraft («i miei genitori non volevano che avessi nulla a che fare con l’horror, quindi il mio scopo diventò vedere e leggere più horror possibili»), non conosceva il racconto. Siamo ancora negli anni Ottanta, prima dell’esplosione di popolarità del tizio di Providence: al tempo è complicato procurarsi le sue opere, e Gordon trova una copia di Re-Animator solo andando a scavare tra le rarità della biblioteca pubblica di Chicago. È, molto appropriatamente per una storia che ricorda da vicino il Frankenstein, un colpo di fulmine: Gordon decide che deve fare assolutamente un film («a dire la verità all’inizio ho pensato che sarebbe potuta essere una fantastica serie TV» – essere avanti di trent’anni: check) e va in cerca di qualcuno che glielo finanzi. Qui arriva la seconda folgorazione, o forse botta di culo: Gordon diventa amico di Brian Yuzna, che gli produce il film e lo porta sotto l’ala protettrice della Empire International Pictures di Charles Band, che al tempo aveva appena fatto il botto grazie a Ghoulies.
Re-Animator viene fuori molto diverso da quello che Lovecraft si sarebbe aspettato se fosse stato ancora vivo nel 1985: a Gordon piace l’orrore, certo, ma gli piace anche raccontare una storia con tutti i crismi e le idiosincrasie di una piéce teatrale, in barba alla vulgata che vuole che più un film horror è trucido e violento meno ha bisogno di buona scrittura a tutto tondo. Ne viene così fuori un body horror ibridato senza vergogna con la commedia nera declinata in tutti i modi possibili tra cui la slapstick più becera – si veda la succitata scena del cunnilingus –, un film grottesco e disgustoso nella migliore accezione del termine e un prodotto sostanzialmente invendibile, ma che nonostante questo (e nonostante una lavorazione frettolosa) riesce a incassare il doppio del suo budget e a convincere Charles Band a dare fiducia a questo tizio pacato e gentile, che è entrato nel rutilante e peccaminoso mondo del cinema mano a mano con la moglie e per trent’anni non ha fatto altro che fare film, fregandosene delle luci della ribalta, dei pettegolezzi, degli scandali.
Vale la pena segnalare che al tempo Charles Band ha bene in testa come spendere i soldi di Empire Pictures: nel 1985, dopo il relativo successo di Re-Animator e di un altro mega-cult come Trancers, la produzione reinveste il pazzo cash degli incassi per comprarsi un castello in Umbria e la Dino De Laurentiis Cinematografica. Band chiede a Gordon se abbia voglia di legarsi a loro per altri tre film, e di fronte al suo sì lo fa traslocare in Italia, dove tra il 1986 e il 1989 gira From Beyond – Terrore dall’ignoto, Dolls e Robot Jox – in altre parole, un altro fantastico adattamento lovecraftiano, l’antenato del 75% degli horror moderni e uno sci-fi che anticipa Pacific Rim di quasi trent’anni. Vanno tutti e tre parecchio male, soprattutto Robot Jox che a fronte di un budget sproporzionato rispetto alle abitudini di Gordon (10 milioni di dollari, secondo le stime più generose) fatica a incassarne uno. Eppure sono tutti e tre, ciascuno a modo suo, gemme da recuperare senza dubbio: From Beyond perché è un adattamento da Lovecraft migliore anche di quanto lo fosse Re-Animator e un film genuinamente terrificante ancora oggi, Dolls perché anche a fronte di una storia che oggi ci sembra estremamente familiare (è la maledizione del pioniere) resta comunque il film più bello da un punto di vista prettamente estetico tra quelli girati da Gordon, e Robot Jox, be’, per scoprire finalmente da dove arriva l’ispirazione per uno dei kolossal migliori degli ultimi dieci anni.
Tesoro mi si è ristretta la carriera
Le riprese di Robot Jox arrivano in un momento particolare per tutti i coinvolti. Per Empire, che sta collassando sotto il peso dei suoi debiti. Per Charles Band, che avendo capito l’antifona ha abbandonato la nave per fondare Full Moon Pictures. E per Stuart Gordon, che mentre sta lavorando al film si trova di fronte all’occasione della vita: Disney, proprio QUELLA Disney, accetta di finanziare una sua sceneggiatura, scritta a quattro mani con Brian Yuzna e originariamente intitolata Teenie Weenies. Gli accordi con Disney prevedono che Yuzna produca e Gordon diriga questa storia horror che parla di uno scienziato pazzo che rimpicciolisce accidentalmente i suoi figli, i quali si ritrovano a lottare per la loro sopravvivenza in una giungla popolata da formiche e api giganti che è poi il giardinetto dietro casa loro.
Sì, ovviamente parliamo di Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi, che nella testa Gordon è un film horror mascherato da film per famiglie, che funziona secondo le regole del genere – e quindi per esempio genera tensione perché i protagonisti sono oggettivamente a rischio di morire – ma usa un linguaggio leggero e divertente, perfetto per grandi e piccini e per far passare sotto il naso dei preoccupatissimi exec Disney una storia di esperimenti andati male e insetti carnivori alti come palazzi. È qui che la sfiga (o forse il terrore del flop da parte di Disney) colpisce Gordon, che si “ammala” prima dell’inizio delle riprese e deve lasciare la seggiola al debuttante Joe Johnston, che finisce con il dirigere uno dei maggiori successi commerciali di quell’anno (all’esordio in sala viene battuto solo dal Batman di Tim Burton) e quello che si rivelerà essere un film di culto, talmente intoccabile che non ce ne siamo ancora dovuti sorbire un remake.
Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi diventa quindi una non-svolta per Gordon, che ha l’occasione di lavorare ancora per Disney (produrrà nel 1992 il sequel Tesoro mi si è allargato il ragazzino) ma che di fatto abbandona ogni velleità di grande salto e ricomincia a dedicarsi a quello che più gli piace: fare film.
L’ultima fase: fare film
La produzione di Gordon, che tra il 1985 e il 1992 ha diretto un film all’anno, rallenta dopo la doppietta Disney, e soprattutto comincia a prendere direzioni inaspettate. Non che il buon Stuart smetta di fare horror: nel 1995, per esempio, si riunisce con Jeffrey Combs e Barbara Crampton per Castle Freak, scritto insieme all’amico e collaboratore di sempre Dennis Paoli e meraviglioso esempio di “film lovecraftiano non tratto da Lovecraft”. E nel 2001 è il turno di Dagon, quello sì un ritorno alle opere del signor HPL, ispirato com’è non all’omonimo racconto ma al romanzo breve La maschera di Innsmouth. Ma tutto il resto? Nei 15 anni che vanno dal 1992 al 2007 Gordon prova di tutto: la fantascienza distopica di 2013 – La fortezza (un mix tra Il mondo nuovo di Huxley, RoboCop e Fuga da New York), quella comica di Space Truckers (un flop clamoroso che merita una rivisitazione), il noir di King of the Ants... tutto pur di raccontare storie e di stare su un set, non per arricchirsi ma perché fare cinema è l’unica cosa con cui gli piace riempire le giornate.
Il che si rivela essere anche, almeno in parte, la sua maledizione: Gordon è uno senza troppe pretese, a cui non piace farsi notare o attirare l’attenzione con nulla che non sia un film. E quindi negli anni è passata l’idea che Stuart Gordon sia un regista di servizio, uno che “te la porta a casa” ma a cui manca il talento necessario al salto di qualità, sia in termini di produzione sia di percezione della critica. E invece Gordon è solo un modesto, uno felice di dove sta e altrettanto felice di lasciare allo spettatore il giudizio sulle sue opere; uno che una volta, a una cena con gli altri partecipanti al progetto Master of Horror (e quindi Don Coscarelli, John Carpenter, Guillermo del Toro, John Landis...) disse «facciamo horror perché sono le prove generali della nostra morte», e questa cosa l’abbiamo scoperta solo dopo la sua scomparsa perché Gordon non ha mai voluto ripeterla ossessivamente tipo slogan solo per diventare famoso – se non fosse stato lui a dirla probabilmente oggi avremmo magliette e tazze della colazione con quella frase, e invece sappiamo che l’ha pronunciata solo grazie all’ottima memoria di Don Coscarelli.
At the first “Masters of Horror” dinner, Stuart said something which resonated with every horror filmmaker: "Horror films are a rehearsal for our own deaths." In eight words he answered why we make them and watch them. Stuart, you made the finest. RIP, my friend. #StuartGordon pic.twitter.com/QQAHRXCOhT
— Don Coscarelli (@DonCoscarelli) March 25, 2020
Un’ultima considerazione: forse il più grande rimpianto sulla (non “della”, quello rimane non aver potuto girare Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi) carriera di Stuart Gordon è che solo alla fine, e in qualche modo fuori tempo massimo, gli è stata data la possibilità di esprimersi in un contesto pienamente autoriale, che non è necessariamente l’obiettivo finale di ogni regista ma è sicuramente una scorciatoia più facile per la fama imperitura. Tra il 2005 e il 2007 Gordon dirige prima Edmond, tratto da una piéce di David Mamet fino ad allora considerata infilmabile per ragioni di opportunità politica (il protagonista, interpretato da William H. Macy, è un razzista misogino e violento), e poi Stuck, un curioso e nerissimo thriller ispirato a una storia vera e nel quale la passione di Gordon per lo humor nero tocca il suo apice. Entrambi vengono ben ricevuti dalla critica e dal pubblico, e sembravano poter indicare una strada nuova per Gordon, forse meno viscerale e legata al genere che più amava ma probabilmente, chi lo sa, ricca di soddisfazioni, complimenti e premi. Invece Stuart Gordon, che era malato da tempo, è morto quest’anno, a 13 anni dal suo ultimo lavoro per il cinema e a 12 da Eater, episodio della serie TV Fear Itself che rimane l’ultima storia girata da Gordon (e che è “quell’altra cosa girata per la TV” da Elizabeth Moss quell’anno oltre a Mad Men).