La Vita È Bella, di Roberto Benigni - 20 anni dopo

Sono passati 20 anni da La Vita È Bella di Roberto Benigni. Fu un successo straordinario di caratura mondiale in grado, però, di "uccidere" cinematograficamente la carriera del toscano

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Vite

Molti artisti ne hanno tante. Trent Reznor, prima di arrivare a Nine Inch Nails, si è lanciato nei gruppi pop, e capigliature, più improbabili tipo The Innocent, Exotic Birds (Uccelli Esotici... proprio come i Porg) o Slam Bamboo. Nanni Moretti, prima di dirigere De VicoDe CeresaAccorsi, Buy, Placido, Michel Piccoli e John Turturro, giurava e spergiurava in tv davanti a Mario Monicelli che lui avrebbe lavorato come regista solo con cast di attori sconosciuti (era il suo modo furbissimo di fare marketing nel biennio dell'esplosione mediatica 1976-1978). Peter Jackson, prima di vincere Miglior Film e Regia all'Oscar del 2004, mangiava il cervello dalle teste mozzate in Bad Taste (1987). Può succedere. Come può succedere che un furetto toscano pieno di vita e fame (culturale, sessuale, politica, economica) arrivi come un uragano alla corte di un grande capocomico della modernità (leggi: televisione) un po' come accadde a John Belushi con Lorne Michaels.
Nel nostro caso stiamo parlando di Renzo Arbore e Roberto Benigni.

Prima Vita

È un comico. La definizione di giullare tanto cara a Dario Fo si adatta perfettamente alla sua fisicità e senso del corpo in movimento satirico dentro la società.  Si inserisce in un gruppo formidabile modello Saturday Night Live (i tempi storici, praticamente, sono gli stessi) composto da sacri pazzi al secolo Andy Luotto, Mario Marenco, Maurizio Nichetti, Guido Manuli, Fabrizio Zampa, Giorgio Bracardi, Isabella Rossellini, Silvia Annichiarico, le Sorelle Bandiera (leggi: un trio di travestiti). Con Arbore scatta subito qualcosa di assai interessante: il rapporto sadomaso. Sia quando fa il critico cinematografico impreparato e paranoico con il capocomico inquisitivo in voce fuori campo (la giovane Gialappa's Band osserva attentamente la struttura della gag e prende appunti) sia quando, nella prima regia di Arbore per il cinema Il Pap'occhio (1980), assume il ruolo di Giuda Iscariota, pronto a tradire Arbore per 30 gettoni telefonici dopo che la mamma gli aveva ricordato al telefono come quel capocomico, sempre e comunque, lo avesse fregato nella vita. E invece è ormai arrivato il momento che il piccolo toscano venuto dal nulla (leggi: paesino di Manciano La Misericordia con un nome che è già tutto un programma) spicchi il grande salto. La sua presenza nel gruppo arboriano si fa sempre più maestosa (monologo da sei minuti del Giudizio Universale dentro il Pap'occhio) proprio come Belushi dopo quella prima stagione del Saturday Night Live.
Il cinema è pronto ad accoglierlo.

Seconda Vita

È stato motivo di forte dibattito nel corso degli anni. Si passa da grandi registi al servizio dei comici nella tradizione della commedia all'italiana (Mastrocinque, Zampa, Comencini, Monicelli, Risi, Corbucci) ai comici che diventano registi di loro stessi emblema di un periodo dove il gioco di squadra perde per far vincere, anche fittiziamente, il solo uomo al comando. Ecco la grande stagione in cui i funny men italici si mettono dietro la macchina da presa, tanto spesso c'è l'autore della fotografia (come vuole Storaro) sul set che dà loro una mano a posizionare la cinepresa. Troisi, Verdone, Nuti, Nichetti... Benigni. Comincia pure lui, piano piano e zitto zitto con un filmettino a episodi dal titolo Tu Mi Turbi (1983). A differenza dei poveri Pills e Jackal questi artisti hanno un vero pubblico affezionato, e non meschino, indifferente e anaffettivo, capace di amarli e seguirli nelle loro ambizioni socio/artistico/economiche. Grazie alla loro generazione in grado di foraggiarli al botteghino dopo il passaggio dal cabaret visto sul piccolo schermo (venivano da lì o lanciati da Arbore o da Enzo Trapani e la sua mitologica trasmissione Rai Non Stop), tutti cominciano una carriera registica. Benigni ha ben presto l'ideona di fare squadra con un altro big come Massimo Troisi ed ecco arrivare il successone cofirmato alla regia Non Ci Resta Che Piangere (1984). Poi arriva la fase industriale Cecchi Gori in cui Benigni è molto bravo a resistere, lavorare con continuità e rafforzare il suo pubblico utilizzando la tv per comparsate esplosive e un po' punk. È uno schema perfetto che lo porta a Il Piccolo Diavolo (1988; pensate un po': ci sono i soldi e la capacità attrattiva di scritturare Walter Matthau), Johnny Stecchino (1991), Il Mostro (1994). C'è già stato l'incontro fondamentale in scrittura con Vincenzo Cerami (Benigni recita nel 1979 ne Il Minestrone di Citti coscritto con Cerami) ai tempi de Il Piccolo Diavolo. Dopo l'ennesimo buon successo commerciale con Il Mostro, i due si sentono pronti per un altro film. Leggermente diverso.

Terza Vita: La Vita È Bella

Facciamo un piccolo flashback. Il nostro ha già condotto un Sanremo (1980), preso in braccio Enrico Berlinguer (1983), lavorato con un regista americano di talento come Jim Jarmush (1986), recitato per Fellini (1990) e, soprattutto, amato alla follia Nicoletta Braschi. Il loro è un sodalizio gioioso e morboso come solo può essere il rapporto tra creativi che resiste nel tempo (punti di riferimento sono Blake Edwards + Julie Andrews o Federico Fellini + Giulietta Masina). Già ti innamori del loro innamoramento in Daunbailò (1986) di Jarmush quando li vedi ballare ognuno con il corpo affondato in quello dell'altro verso la fine del fine del film. John Lurie e Tom Waits non possono che guardarli estasiati pure con un pizzico di invidia. L'irraggiungibile fumettista Andrea Pazienza passa una serata in loro compagnia e rimane molto colpito dall'erotismo sprigionato dalla coppia. È un po' come la gag di Johnny Stecchino in cui il gangster cattivo interpretato da Benigni deve ogni tanto palparle le tette come preso da un raptus per placare la propria mancanza di felicità. I due sembrano effettivamente una cosa sola. Ma torniamo alle vite. È arrivato il momento di, parole sue: "Mettere il corpo comico in una situazione estrema come l'Olocausto. È una tragedia perché comincia bene e finisce male al contrario di una commedia. Volevamo poter dire 'È meraviglioso' all'Inferno". Questa frase di Benigni contenuta nell'introduzione a un'edizione blue-ray di sette anni fa descrive perfettamente l'operazione La Vita È Bella. Prima parte gioiosa con ali di folla festanti in attesa dell'arrivo di Re Vittorio Emanuele III in un paesino italiano del 1939 (Benigni girò proprio a Vergaio dove si trasferì a sei anni di età con la famiglia da Manciano La Misericordia) e seconda parte quasi drammatica ambientata in un campo di concentramento dove la famiglia di ebrei italiani perbene e felice Benigni, Braschi e figlio piccolo (Giorgio Cantarini) si ritrova per caso dopo essere stata deportata lì dall'Italia grazie alle leggi razziali firmate proprio da Vittorio Emanuele III, la cui salma è tornata nel nostro paese giusto quattro giorni fa. C'è tanto Chaplin dentro l'anima del film non solo per quanto riguarda Il Grande Dittatore (1940) ma anche per cosettine più piccole come Charlot Panettiere (1914) citato da Benigni nella scena del ricevimento al Grand Hotel. Il toscano ha sempre guardato con stima i maestri della comicità nordamericani. In Johnny Stecchino aveva citato molto bene la scena dello specchio di Groucho in La Guerra Lampo Dei Fratelli Marx (1933).  Sono passati 20 anni da La Vita È Bella. Ne abbiamo sentite di cotte e di crude compresa l'accusa di plagio nei confronti del superiore Train De Vie - Un treno per vivere  (1998) di Radu Mihaileanu (il quale effettivamente offre il ruolo del pazzo poi andato a Lionel Abelanski in quel suo film a Benigni che quindi sappiamo legge quella sceneggiatura prima di girare La Vita È Bella). Per alcuni è subito un capolavoro (Michele Serra lo mette allo stesso livello di Chaplin) per altri no (Vittorio Gassman dice: "Non sembra girato proprio da Stanley Kubrick"). La prima parte è tutt'ora ottima. C'è la voglia di ridere e innamorarsi (Benigni incontra Braschi e perde ovviamente la testa per lei) umanamente ignorando la tempesta politica che sta arrivando all'orizzonte. Comprensibile e intelligente in sceneggiatura. Chi di noi classe media senza accesso ad informazioni riservate avrebbe potuto prevedere quell'abominio? La seconda parte nel campo di concentramento è più problematica perché Benigni, raccontando le balle al figlio per fargli sembrare tutto quell'ambiente un grande gioco, isola un po' troppo i tre personaggi del film dalle sofferenze altrui, lasciate ai bordi dell'inquadratura. Ci voleva più altruismo, o umanesimo, cinematografico alla Vittorio De Sica regalando spazio allo strazio altrui (con primi piani, battute e personaggi esterni al trio più incisivi e dentro la storia) perché hai la sgradevole sensazione che se Guido Orefice abbia tutte le ragioni del mondo per concentrarsi solo ed esclusivamente su figlio e moglie, il regista Roberto Benigni doveva entrare leggermente più in contrasto dialettico con il feroce egoismo del suo personaggio. Digitato ciò, il film è tutt'altro che brutto. Anche 20 anni dopo. Abbiamo la sensazione che come spesso accade in Italia, ma non solo in Italia, La Vita È Bella sia ricordato, con odio, più per lo straordinario successo avuto che per altro. È il film italiano che ha ancora incassato di più al mondo e poi... 180 festival in curriculum. Nove David di Donatello (Vittorio Gassman lo prende in braccio), Gran Premio Della Giuria al Festival di Cannes consegnato dal Presidente di Giuria Martin Scorsese (Benigni gli bacia le scarpe, iniziando quelle sue ridicole reazioni buffonesche alle vittorie tanto prese in giro negli anni dagli anglosassoni che ci dipingono come degli eterni leccapiedi). Il toscano esclama davanti al regista di Taxi Driver: "Grazie per la Palma d'Oro!". Poi il gran finale quel 21 marzo 1999 al Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles con la vittoria dell'Oscar come Miglior Colonna Sonora Originale (Nicola Piovani), Miglior Attore Protagonista (Roberto Benigni ai danni dello Ian McKellen di Demoni e Dei) e Miglior Film Straniero (rivali non insormontabili quell'anno). Indimenticabile la sobria dedica ai colleghi hollywoodiani: "Vorrei essere Giove, rapirvi tutti, portarvi nel firmamento e fare l'amore con ognuno di voi!". Un ex comunista pronto come sempre a essere invaso di gioia dal premio degli amici imperialisti. È sempre molto divertente vedere la reazione dei di solito riottosi e massimalisti artisti latini, spesso contro gli Stati Uniti a dibattiti e manifestazioni, quando Papà Oscar si piega su di loro elargendo il contentino. È sempre assolutamente emblematico del rapporto psicologico tra lo schiavo finto ribelle (noi) e il padrone realmente, e giustamente, padrone (loro). All'epoca c'è Harvey Weinstein fortissimo dentro l'Academy Awards (è lui ad occuparsi della distribuzione e campagna Oscar de La Vita È Bella) mentre Benigni è bravissimo a saltare sui tavoli di ogni cena di presentazione del film intrattenendo come solo un giullare non antagonista può fare verso i potenti dell'Oscar, favorevolmente colpiti da quel buffo italiano così pittoresco. Quando Matteo Garrone entra in quel gioco per Gomorra (2008) non riesce nemmeno a superare la prima selezione. Un po' perché il suo film non ha protagonista ed è un po' troppo nichilista... un po' perché Garrone non parla nemmeno quando parla in italiano. Figurarsi in inglese.
Benigni invece li fa innamorare tutti. Almeno per il tempo necessario per vincere. Poi dopo...

Quarta Vita: la morte

Il successo è sempre peggio dell'insuccesso nella carriera di un artista. E l'Oscar, si sa, è spesso una maledizione per i nostri eroi della creatività. La percezione di Benigni dopo quel 21 marzo 1999 è mondiale. Il ragazzo che aveva fame è ormai satollo? Sarà in grado di reggere le aspettative socio/artistico/produttive attorno a lui? La risposta è no. I film successivi sono uno più brutto dell'altro: Pinocchio (2002) è uno dei più fallimentari adattamenti di sempre da Collodi mentre La Tigre E La Neve (2005) è un calco tristissimo de La Vita È Bella (individuo dentro grande evento mondiale). Chi odia Benigni, grazie a quei due film, lo può odiare ancora di più. Mentre siamo convinti che Paolo Sorrentino abbia la grinta, ambizione e cattiveria giusta per poter sopravvivere all'Oscar (se poi andasse effettivamente a fare un Bond, sarebbe una scelta veramente geniale), Benigni crolla nell'immaginario globale tornando mesto-mesto ad occuparsi della veicolazione pop di Dante Alighieri.
Anche il sodalizio con Nicoletta Braschi è visto dai più ormai solo come una multinazionale.
Ma la vita è lunga, oltre che bella, e il ragazzo ha solo 65 anni.
Siamo sicuri che ci regalerà ancora qualche guizzo dei suoi, magari al servizio di un giovane regista in grado di reinventarlo davanti ai nostri occhi e, perché no, anche a quelli del mondo.
Perché il giovane comico che impressiona poco più che ventenne Renzo Arbore in quei 6 minuti magistrali nel monologo de Il Giudizio Universale dentro Il Pap'occchio ha dimostrato di poter abbracciare con la sua arte larghe porzioni del Pianeta Terra.
Come ai tempi de La Vita È Bella.

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