Videogiochi e natura: sfruttamento e collaborazione
Una riflessione sulla rappresentazione della natura nei videogiochi e sulla posizione del giocatore nei suoi confronti
Al contempo, appare però innegabile che la cultura che caratterizza il nostro approccio odierno al videogioco sia generalmente improntata al consumo e allo spreco di risorse, che ci vengono messe a disposizione per un potenziamento quasi sempre individuale, indipendentemente dalle conseguenze delle nostre azioni. Nell'ambito specifico del rapporto con la natura e l'ambiente, le grosse produzioni (ma anche quelle più indipendenti) usano quasi sempre gli splendidi biomi virtuali in cui ci lasciano immergere come strumenti per ottenere specifici obiettivi: si pensi al fenomeno della caccia e della raccolta, letteralmente esploso dopo l'uscita del primo Red Dead Redemption e declinato in decine di modi diversi dai vari Far Cry e Assassin's Creed, o ai numerosissimi farming sim in cui accumuliamo, raccogliamo e rivendiamo tonnellate di diversi prodotti, ottimizzandone la produzioni e i ricavi. La natura, gli animali, le piante e i luoghi dei mondi virtuali spesso non sono coprotagonisti dell'avventura, come dovrebbe accadere in un'esperienza che simula o evoca il reale, ma sono poco più che comparse utili al nostro sentirci sempre più potenti, rilevanti o, semplicemente, protagonisti.
L'antropocentrismo dei media e del pensiero è d'altronde qualcosa che caratterizza le culture occidentali da secoli, ben prima della società dei consumi e dei cambiamenti climatici: si pensi storicamente alle reazioni di una parte della società rinascimentale verso le scoperte scientifiche relative alla centralità del Sole, e non della Terra, all'interno di quello che poi avremmo chiamato, per l'appunto, sistema solare. Quest'approccio al pensiero si è però talmente radicato nel corso dei secoli che negli ultimi decenni si è tradotto in veri e propri cambiamenti reali: il principio dell'accumulo e del consumo, anche e soprattutto della natura, governa le nostre abitudini, e ha costruito un sistema in cui sovrasfruttiamo talmente tanto l'ambiente da non riuscire a usare tutto ciò che produciamo. Non è un caso se il biologo Stoermer coniò negli anni '80 il termine Antropocene per descrivere un ecosistema, il nostro, in cui l'impatto dell'azione umana è talmente rilevante da essere diventato il primo fattore di mutamenti territoriali e climatici. I videogiochi di oggi riflettono coerentemente questo stile di vita: piante, animali e natura in generale vengono sfruttati nel modo più apatico possibile, privati di particolare spessore emotivo ma derubricati a risorsa da consumare. Tonnellate di pixel e giga vengono investiti nella creazione di animazioni sempre più spettacolari e realistiche, ma ben poco viene fatto per riprodurre rapporti di forza tra natura e uomo che possano stimolare una collaborazione, o metterne in scena una che sia credibile.
Ma esistono dei casi di videogiochi che provano a invertire questo rapporto di forze, proponendo opere che impostino un dialogo con la natura o con le sue riproposizioni digitali, cercando di recuperare una cultura di cooperazione e collaborazione con il nostro pianeta. Mettendo da parte per un attimo il panorama indipendente, che ovviamente ha raccolto decine di testimonianze di opere interattive in grado di descrivere con efficacia la bellezza e la brutalità della natura (Shelter, Stillness of the Wind, ecc.), anche il mondo delle grandi produzioni ha saputo offrire coraggiosi nuovi spunti. Come se Rockstar volesse implicitamente chiedere perdono per il successo delle meccaniche di caccia del primo Red Dead Redemption, nel secondo capitolo della pluripremiata serie western alcuni dettagli e meccaniche sono stati integrati per costruire un rapporto con la natura e il mondo di gioco che abbia maggior senso e impatto a livello emotivo, per il giocatore. Innanzitutto, è materialmente impossibile dedicarsi alla carneficina più insensata di animali con l'obiettivo di accumulare esperienza e risorse, perché sistema di raccolta e gestione dell'inventario rende tutto ciò inutile e immensamente controproducente. Inoltre, persino la cavalcatura viene caricata di un valore sia economico e ludico che emotivo, con scelte dal valore meccanico nullo (poter dargli un nome) o immenso (morte permanente, con conseguente perdita delle statistiche di quella particolare cavalcatura), ma comunque legate a un processo di parificazione dell'importanza dell'animale sul compagno di viaggio. Anzi, paradossalmente, una delle grandi incoerenze dell'ultima fatica Rockstar sta proprio nel non aver opportunamente evitato al contempo le immense, incoerenti e poco credibili carneficine di uomini che saltuariamente ci vengono imposte lungo l'avventura di Arthur Morgan.
[caption id="attachment_193676" align="aligncenter" width="3840"] In Red Dead Redemption 2 il rapporto con la propria cavalcatura ha una profondità del tutto nuova[/caption]
Ma se in Pokémon troviamo quindi la più crudele delle riproposizioni del rapporto antropocentrico di sfruttamento tra uomo e natura, è sempre dal Giappone che arriva l'opera più completa e ambientalista che abbia avuto riconoscimento nel panorama mainstream: The Last Guardian. Questo capolavoro del design sottrattivo non poteva che nascere dalla mente geniale di Fumito Ueda, che alla natura e la potenza del suo richiamo per l'uomo ha dedicato gran parte della sua poetica. Quando Sony gli diede il compito di creare un'installazione in un centro commerciale di Yokohama, lui creò una piccola gabbia, di quelle per parrocchetti o altri volativi, e la riempì con cumuli di terra. Dipinse le sbarre con quelli che sembravano i segni di n artiglio, e scrisse che quella era la gabbia di un gatto che viveva sottoterra. Quando un acquirente, curioso, si avvicinava alla gabbia, Ueda, nascostosi nei paraggi, avviava dei piccoli macchinari che lanciavano la terra sugli avventori, lasciandoli sporchi, segnati. Lasciare un segno tangibile ore dopo l'incontro con l'opera: è questo l'obiettivo di Ueda. E in questo caso la natura e la curiosità, l'attrazione verso essa da parte dell'uomo, svolgono un ruolo chiave. Come sappiamo, non sarà l'ultima volta che ciò accadrà, nella sua carriera. Infatti, sia in Shadow of the Colossus che in The Last Guardian il rapporto tra uomo e natura sarà al centro del percorso emotivo costruito per il giocatore, in un trionfo di comunicazione interattiva in cui la costruzione dell'emotività nei confronti di Trico costituisce anche la progressione ludica imposta al giocatore, che dovrà superare la sfida di parlare in modo sempre più chiaro con il coprotagonista dell'opera. Non è un caso dunque che la più grande delle critiche rivolte all'opera del maestro giapponese sia stata relativa alla difficoltà di manovrare Trico: abituati a interagire con macchine funzionali al raggiungimento di uno scopo, la complessa e spesso impossibile comunicazione con un altro essere vivente risulta per molti di noi ingiocabile, inutile, priva di valore meccanico.
Ed è in questo ribaltamento dei rapporti di forza che risiede l'immenso valore del capolavoro di Ueda, ed è da questi virtuosi esempi che il mondo videoludico può prendere spunto se vuole partecipare con valore e impegno alla grande battaglia che attende l'umanità, nel prossimo decennio.