Videocracy: quando la TV plasmava l’Italia un film la scandalizzava
Videocracy era due cose: una denuncia delle distorsioni del suo tempo e una riflessione su come la democrazia sia in balia dalle immagini
In attesa dell’arrivo di After Work, documentario di Erik Gandini sul futuro del lavoro, ripercorriamo quello che fu il suo Videocracy - Basta apparire.
Nella cultura italiana i personaggi descritti nel documentario non se ne sono mai andati. Però la post verità, l’esplosione dei social network, la crisi dell’editoria, hanno confinato Videocracy ad essere espressione del decennio in cui è stato prodotto. Lì il film aveva suscitato un acceso dibattito (come desiderato). Arrivò anche all'estero il rifiuto da parte delle reti RAI e Mediaset di trasmettere il trailer. Lo prese La7, anni dopo, come film evento. Oggi Videocracy ha il valore di un “come siamo arrivati qui”.
Il cinema provocatorio di Gandini
In After Work Gandini sembra espandere la tesi sul lavoro nell'economia digitale espressa da Ken Loach in Sorry We Missed You. Con Videocracy ha fatto un prologo di quello che fu Reality di Matteo Garrone. In entrambi c'è la televisione come fucina dei sogni e delle aspirazioni degli italiani. Un mondo mediatico pre social in cui già si respirava la stretta connessione tra essere e apparire. Un inganno degno del mago di Oz.
La tesi è che i media e la realtà si alimentino a vicenda: l’etere si nutre delle mostruosità, le prende e le ingigantisce al suo interno. Poi le risputa fuori, creando personaggi, idoli, manipolatori. Bastarono 30 secondi di discorso ai microfoni del telegiornale perché Fabrizio Corona creasse il suo stesso mito e facesse la sua ulteriore "fortuna". Allo stesso tempo i 30 secondi sono anche quelli di finta gloria ricercata di fronte alle telecamere da chi non ha altra soluzione che vendersi al pubblico ludibrio. L’immagine più impressionante: una donna di mezza età che si spoglia per la telecamera dei provini di una trasmissione. La direttrice del casting sorride nel guardare il penoso spettacolo.
Certo l’Italia di Videocracy non ha speranza. Primo, secondo, terzo mondo, quello inquadrato da Gandini è un quarto mondo mediatico. La lente dell’obiettivo tutto giustifica. Gli inni fascisti mostrati con orgoglio dal cellulare di Mora. Le pareti nascoste dietro la casa del Grande Fratello per spiare i concorrenti. I ritmi e i tempi televisivi piegati per portare lo spettatore a vedere ciò che deve essere visto. Una distopia molto reale.
Videocracy, la paura di sparire e quella di non contare
Un documentario horror in cui la morte fa da padrona. È pieno di corpi senz’anima. La regia riprende le persone come loro desiderano apparire in TV: personalità subordinate al corpo, all’immagine. Così, mentre in Italia si dibatteva sui presunti limiti di Videocracy (una visione disfattista senza speranza, il fatto di raccontare cose già note agli Italiani) si perdeva di vista la parte di maggior interesse: la riflessione sull’impatto delle immagini.
Spesso questo tema è stato affrontato nei termini positivi dell'arte. Come una storia o un buon personaggio possono modificare i costumi e il modo di pensare di un’intera società. Videocracy invece aveva intuito una cosa che è stata poi fondamentale negli anni di boom del web. Cioè che è il basso a influenzare la massa ben più dell'alto. Il trash, l’intrattenimento godereccio, stavano parlando alla maggioranza degli italiani trasformandoli lentamente con il loro placet. Una donna mezza nuda vicino a un conduttore maschio ha lo stesso impatto (in negativo) di un programma di divulgazione scientifica (in positivo). Una storia dello sguardo presa da ciò che gli fa fare passi indietro.
In questo modo il cinema politico, militante e determinato, di Erik Gandini diventa sfumato e interrogativo quando parla del cinema stesso. Così Videocracy si veste dell’affascinante paradosso di essere un film fatto di immagini rimontate al fine di avvertirci della manipolazione delle immagini stesse.