Vi ricordate quando Fast and Furious era un film sportivo? | The Fast Saga
Con l'arrivo di Fast & Furious 9 rivediamo il primo capitolo: Fast and Furious. Sembra sia passata un'epoca e, in effetti, è così!
La linea retta della strada senza curve, l’immagine subito adottata dalla saga, ma anche la più forte che sia mai riuscita a racimolare. In mezzo a quei metri percorsi alla massima velocità c’è tutta la vita. Fast and Furious era così: non era fatto di curve ed esplosioni, ma di sguardi dal finestrino.
I capitoli più recenti sembrano ambientati in una dimensione alternativa con regole fisiche proprie e superesseri degni dei cinecomics di serie B. Dimentichiamoli per un attimo. In origine invece Fast and Furious raccontava il giorno e la notte come in un racconto di vampiri. Lavoratori, persone comuni, che al calare del sole si trasformano in membri di una setta segreta di cultori della velocità. Di giorno servono i rapporti umani, i gesti concreti e le parole. Di notte invece i conti si regolano in pista.
Grazie però a questo tono particolare, tipico dell’avvento del digitale, si può gustare un sapore che non c’è più. In qualche modo la prospettiva si ribalta e il film non appare più solamente come un contenitore di suggestioni di un decennio oramai lontano e appena finito quando arrivò in sala. Raccoglie invece tutto ciò che solo in quegli anni si poteva fare, e che oggi non è più concesso dalla sensibilità estetica. Il film è oggi come un reperto antico di basso valore, rovinato dal tempo, ma anche irriproducibile. È una sorta di reliquia, simbolo di un periodo e di un modo di pensare andato perduto.
Fast and Furious era serio, credeva in quello che raccontava, per quanto fosse una materia bassa e popolare. Oggi invece c’è imbarazzo nel guardare alla semplicità. La saga mette le mani davanti. Si scusa preventivamente per non essere niente di più che puro intrattenimento. Lo fa usando e abusando dell’autoironia, del cinismo che ha infettato spettatori sempre più disillusi. Nei momenti morti, in cui il riferimento meta e le rotture della quarta parete non riescono, cerca di mettere senso, significato, psicologia.
Perché noi siamo cambiati, e la saga si è adeguata a noi per non morire.
Che bello che era invece l’inizio, proprio nel suo essere così terra a terra. Una corsa dritta da un punto a un altro in cui ci sono amori, amicizie, conflitti, tradimenti. Nessuno chiedeva di più.
E poi c’erano le auto, veramente al centro, ben più della loro controparte umana. Erano l’equivalente del vestito giusto nelle commedie adolescenziali, erano il superpotere, ma anche la casa, l’unico possedimento che conta. Rischiare la vita è da ragazzini, avere il coraggi di scambiarsi le chiavi di una macchina da dieci secondi è da veri uomini.
“Vivo la mia vita un quarto di miglio alla volta” non è molto differente dal “non è importante come colpisci, l'importante è come sai resistere ai colpi” di Rocky Balboa. Rob Cohen maschera infatti sotto la veste di poliziesco un’anima da film sportivo. Dom Toretto non è il buono senza macchia e dagli alti valori che conosciamo ora. Era un personaggio ambiguo, minaccioso rispetto a Brian (Paul Walker), il vero eroe con cui identificarsi.
Vin Diesel ancora credeva nella doppia natura del personaggio e la fa convivere in ogni istante. Anche le scene in famiglia hanno una tensione pronta ad esplodere. Nei più recenti capitoli non è così: i momenti di ritrovo tra parenti sono quelli dei sorrisoni e degli occhi a cuore, mentre contro i cattivi si irrigidiscono i muscoli e si contrae la bocca. Sempre così. Mai un cambio, mai una sfumatura. Nel primo film Dom poteva spaccare la testa a chiunque in qualsiasi momento. Oggi si è intenerito.
Le auto sono gradualmente scomparse dal franchise. Non come presenza: sono sempre le protagoniste, tanto che ora volano, vanno nello spazio, saltano da un palazzo all’altro. Eppure si ricordano sempre meno, non hanno personalità. In Fast and Furious la cosa incredibile è che i guidatori sono il riflesso della personalità dell’auto (non il contrario). I colori fluorescenti fanno parte dello spettacolo e del senso del film. “Pimpare” l’auto è l’equivalente di una dura sessione di allenamento in palestra per un pugile. Significa cambiare se stessi. Chi ricorre alla via più semplice (come il “nos”) non è visto di buon occhio.
Era poco, e forse anche ingenuo. Ma era anche una visione coerente e sentita, girata testa alta con la sola voglia di divertirsi. Oggi il franchise ha mutato il suo desiderio nell’ossessione di intrattenere chi guarda. Ma sembra che abbia perso il gusto artigianale di riprendere a 24 fotogrammi al secondo l’adrenalina della velocità. Chi gira questi film si diverte quanto noi che li guardiamo? All’inizio sì, oggi viene qualche dubbio.