Un programma come quello di Venezia 78 è possibile solo dopo anni di lavoro
In un anno particolarissimo diversi film importanti aspettano di uscire in autunno ma averli tutti (o quasi) non era scontato per Venezia prima del 2021
Nemmeno i più ottimisti avrebbero immaginato 5-6 anni fa, quando il cinema italiano ha iniziato il suo lentissimo processo di cambiamento, un concorso di Venezia con 4 film italiani di autori per la prima volta al Lido in competizione, 3 dei quali con non più di 3 lungometraggi sulle spalle e di culto ognuno per ragioni diverse (i giovanissimi D’Innocenzo, appena 30 anni e una credibilità internazionale di ferro; il rivoluzionario Mainetti che sembra vivere in un mondo del cinema in cui valgono regole diverse dagli altri; Michelangelo Frammartino, il nostro Terrence Malick). Che i rimanenti sarebbero stati del nostro autore più forte nel mondo al momento (Paolo Sorrentino) e solo uno di un cineasta della tradizione, Mario Martone, con un film della tradizione (su Eduardo Scarpetta), conferma l’imprevedibilità dell’evento. Detto in altre parole: 10 anni fa Freaks Out sarebbe stato fuori concorso, America Latina in Orizzonti e Il buco alla Settimana della critica. Oggi invece prendono il riflettore più grande di tutti.
Certo, abbiamo imparato negli anni che non tutto quel che una certa edizione di un festival mostra è frutto di una decisione e di una scelta programmatica che si riscontrerà anche in futuro. Sappiamo (perché l’hanno spiegato i direttori e Alberto Barbera in primis) che nessuno più, tra le grandi produzioni, tiene i film fermi in attesa di un festival, è qualcosa che fanno solo i più piccoli e bisognosi di una vita in quel circuito per avere un senso economico. I festival oggi si fanno con i film che ci sono, con quelli cioè che sono pronti (ovviamente) e che escono di lì a un paio di mesi. Massimo tre. È vero soprattutto per le produzioni dei grandi studios americani, che non sconvolgono i loro piani marketing per un festival ma ci vanno se questo si inserisce nei tempi già prestabiliti per la promozione.
Quindi non si può dire che la Mostra di Venezia abbia definitivamente svoltato verso il cinema a più alto tasso di hype, la concentrazione eccezionale di quest’anno di titoli discussi, rimandati e attesi dalla comunità cinefila più attiva e meno dormiente suona come una coincidenza più che una presa di posizione. Ma per sfruttare questa coincidenza servivano anni di lavoro, serviva aver costruito rapporti con cineasti come Denis Villeneuve, con piattaforme come Netflix e con gli autori maggiori come Pablo Larrain. Tutti habitué di Venezia. Si vedranno così al Lido The Last Duel di Ridley Scott, Dune, Last Night in Soho, Freaks Out, Spencer e Inu-Oh, alcuni titoli che formano la punta più visibile di un programma che quest’anno sembra essere riuscito più del solito a ribaltare aspettative. E soprattutto film in certi di casi di autori (come Edgar Wright) che i festival non hanno mai chiamato nonostante facciano un cinema sofisticato. Wright invece a Venezia è stato chiamato prima in giuria qualche anno fa e adesso fuori concorso. Pure questo è un festival moderno: un evento che attira nella propria orbita i migliori, a prescindere dal fatto che girino film commerciali o no.
Anche solo pensando al concorso abbiamo imparato a conoscere e prevedere la maniera in cui Alberto Barbera e il suo team più di qualunque altra squadra selezionatrice della mostra iniettino nella competizione quello che una volta era considerato cinema commerciale e oggi in realtà è sempre più un ibrido. Freaks Out è il caso di quest’anno, almeno tra i film che già conosciamo, ma c’è da giurare che tra i meno noti ce ne saranno altri. A questi vengono affiancati gli storici interpreti del cinema ibrido tra festival e pubblico, come Almodovar, o i maestri moderni come i grandissimi Mariano Cohn e Gaston Duprat (finalmente con un film grande, con Penelope Cruz e Antonio Banderas) oltre ovviamente al cinema di ricerca che rimane la colonna vertebrale.
E a proposito di lavoro di anni che in quest’edizione è più visibile che mai, se la forte presenza americana è il tratto più evidente della selezione (perché l’anno scorso per ovvie ragioni era ridotta e perché era ridotta anche a Cannes), la presenza del cinema francese non è da meno. Cannes molto spesso riesce ad avere i film italiani migliori (almeno così è stato negli ultimi 20 anni), Venezia quasi mai ha avuto i migliori film francesi. Non si può dire che la tendenza si stia invertendo, ma i 4 film francesi tra concorso e fuori concorso qualcosa raccontano. Così come la presenza del cinema latino (altro lavoro lungo che il festival ha fatto negli anni) qualcosa racconta.
Come per ogni anno rimane un interrogativo solo, se nel 2021 la Mostra riuscirà a compiere anche il passo più difficile, quello della scoperta dei nuovi talenti. Molti infatti sono arrivati a Venezia in questi anni con opere prime o seconde senza essere conosciuti, pochi ne sono usciti lanciati a livello mondiale. Molti hanno necessitato di altri festival per esordire e poi sono venuti a Venezia con i film successivi, più grandi. Venezia presenta Freaks Out in concorso, dimostrandosi lungimirante, ma la stessa gestione non aveva voluto Lo chiamavano Jeeg Robot, fallendo nel riconoscere quel cinema e quel regista agli esordi. La vera speranza per quest'anno allora è quella di vedere al Lido l'esordio di un maestro di domani.