Un lupo mannaro americano a Londra è un manuale di cinema

Un lupo mannaro americano a Londra compie quarant’anni, durante i quali è diventato un manuale su come si fa certo cinema

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L’aspetto più curioso di Un lupo mannaro americano a Londra, che compie oggi quarant’anni dalla sua uscita italiana, è che non nasce per essere un film sulla licantropia. Lo racconta lo stesso John Landis in una breve intervista che trovate nelle edizioni home video del film: nel 1970 era in Jugoslavia a lavorare sul set di I guerrieri e lì incontrò un gruppo di quelli che lui descrive come “gypsies”. I quali, dice sempre il regista, stavano compiendo un qualche rito su una persona appena sepolta per impedirle di risvegliarsi dalla tomba (ci sarebbe da fare un approfondito studio antropologico su questo aneddoto, ma vi lasciamo il piacere). Landis dice che quell’episodio lo portò a confrontarsi con una scomoda verità su di lui: non sarebbe mai stato in grado di confrontare un non-morto.

Decise quindi di scrivere un film a partire da questa idea.

Come questo bizzarro spunto – chi di voi potrebbe affermare con certezza “sì, io non avrei problemi a trovarmi faccia a faccia con un morto vivente”? – sia diventato la commedia horror più importante degli ultimi quarant’anni è un mistero la cui risposta si nasconde tra le pieghe del cervello di John Landis: Un lupo mannaro americano a Londra è il suo quarto film, arrivato sulla scorta del successo (perdonateci l’eufemismo) di Blues Brothers e Animal House, eppure si vede che le sue radici affondano nel passato, che non è un’idea nuova partorita in un momento di ispirazione particolarmente fertile ma qualcosa su cui Landis rimuginava da tempo. Il punto è che non è chiarissimo come ci abbia rimuginato: Un lupo mannaro americano a Londra parla di non-morti, certo, e della difficoltà nel restare nella stessa stanza con uno di loro; ma parla soprattutto di trasformazioni, transizioni, identità, istinti, anche malattia, tutta una serie di argomenti tradizionalmente legati al mito del licantropo e declinati in un modo che avrebbe fatto scuola per i successivi quattro decenni.

Laro mannupo

La verità è che ci importa poco di come Landis sia passato dal suo spunto jugoslavo al film di cui oggi celebriamo il quarantesimo compleanno. Un lupo mannaro americano a Londra è uno dei casi più classici di film troppo strano per essere immediatamente capito. Landis andò incontro ai soliti, prevedibili problemi che perseguitarono molti film “ibridi” di quegli anni: gli dissero che la sceneggiatura era troppo divertente per essere un horror, e troppo spaventosa per essere una commedia. E il punto è che è tutto vero.

Intendiamoci, sono altri i motivi per cui Un lupo mannaro americano a Londra è passato alla storia. Primo film a vincere un Oscar beneficiando del furto ai danni di Elephant Man, come vi avevamo raccontato qui. Un trionfo creativo da parte di uno dei più grandi artisti della storia del cinema, Rick Baker. Geniale, rivoluzionario, e insieme artigianale; un film definito dalla sua scena più famosa, modello irraggiungibile al quale chiunque voglia fare a meno di un computer per creare un effetto speciale non può che guardare con ammirazione. Questa scena, insomma, che a leggere in giro sembra sia l’unico motivo per cui il film di John Landis è un capolavoro:

E sì, certo che questa scena è storica, iconica, inimitabile. Guardatela e continuate a ripetervi “non c’è nessun effetto digitale”: vi sfidiamo a credere ai vostri occhi, a quarant’anni (40!) di distanza (se volete saperne qualcosa di più provate a guardare qui). Ammiratela come un’opera d’arte, ma non limitatevi a identificare Un lupo mannaro americano a Londra con questi tre minuti, perché gli altri 94 valgono altrettanto, a tratti di più. Lo dimostra il fatto che ha avuto un’influenza enorme su intere generazioni di filmmaker, che hanno trattato l’opera di Landis come un manuale di istruzioni che spiega nel dettaglio come maneggiare materie apparentemente distanti come l’horror e la commedia.

Pensate alla trilogia di La casa di Sam Raimi, e a L’armata delle tenebre in particolare, al modo in cui è capace di passare dalle one liner e dalla comicità slapstick all’ultraviolenza nel giro di pochi secondi. Pensate a L’alba dei morti dementi di Edgar Wright, che usa il gore come veicolo di comicità e che innesta una storia d’amore su un’apocalisse zombi. Pensate al video di Thriller, che esiste perché Michael Jackson era un fan di Un lupo mannaro americano a Londra. Il film è il perfetto esempio di come scrivere una storia e mettere i generi al suo servizio. Quando serve raccontare qualcosa di spaventoso, Landis sfodera tutta la sua conoscenza della grammatica dell’horror, in particolare di quell’horror che fa paura perché non mostra, nasconde, oscura e colpisce dall’ombra. Quando il pericolo non è imminente e la storia può respirare e concentrarsi sui personaggi, Landis fa la bro comedy, poi la commedia romantica, e continua a cambiare linguaggio, ad adattare il film alle esigenze narrative e non a piegarlo a uno stile prefissato.

Jack

Ci sono molte scene, non solo quella della trasformazione, che sono diventate un archetipo ripetuto ed esplorato allo sfinimento nei successivi quarant’anni. Volete un esempio che coinvolge un autore che deve moltissimo a John Landis? In Buffy l’ammazzavampiri, Oz e il suo intero arco narrativo sono modellati sul David di Un lupo mannaro americano a Londra, al punto che il “finale” del personaggio di Seth Green riprende, con un twist, quello del film di Landis.

Un’altra prova dell’universalità del film è il fatto che ne esistano tante interpretazioni e seconde letture quante sono le teste delle persone che ci hanno ragionato. C’è chi ci ha visto una “allegoria dell’ebraicità esoticizzata” e chi ci ha letto sottotesti queer, chi, nel modo in cui gli inglesi si comportano nei confronti dell’americano, vede una specie di trailer della Brexit qualche anno prima, e ovviamente c’è una lettura, diciamo così, epidemiologica che vede nella licantropia la metafora di una malattia altamente infettiva – se il film fosse uscito solo qualche anno dopo, per esempio, si sarebbe detto che parlava allegoricamente di AIDS. È divertente constatare che tra le tante interpretazioni che sono state date di Un lupo mannaro americano a Londra non se ne trovi nessuna che esplora il discorso da cui siamo partiti, quello di Landis sull’impossibilità di confrontarsi con i non-morti. D’altra parte è un po’ il destino dei capolavori: a un certo punto sfuggono dal controllo del loro autore per diventare patrimonio collettivo.

A quarant’anni dall’uscita di questo particolare capolavoro non possiamo che ringraziare John Landis per il cadeau.

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