Un giorno di ordinaria follia ha uno dei villain più belli di sempre

30 anni fa usciva Un giorno di ordinaria follia, un commento tragico alla società americana con un villain complesso e agghiacciante

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30 anni fa succedevano due cose incredibili. La prima è che usciva in Italia Falling Down di Joel Schumacher. La seconda è che la distribuzione si inventava un titolo che raccontava il film molto meglio di quello originale: Un giorno di ordinaria follia.

Queste 24 ore da pazzi sono quelle che colpiscono Michael Douglas, nei panni di William Foster. Un uomo incazzato per via di un vissuto che non è affar nostro. Lo scopriremo, in realtà, poco alla volta seguendolo nella sua spirale autodistruttiva. 

Una citazione poetica diventa una tortura

Federico Fellini nei primi minuti di 8 e 1\2 inquadrava il traffico. Le auto come contenitori di tante micro storie. Poi la liberazione: la sagoma di un uomo esce dal finestrino e vola nel cielo. Joel Schumacher si rifiuta di riprendere l’ingorgo con fare poetico. È il momento più caldo della più calda estate losangelina. William vuole raggiungere l’ex moglie per vedere la figlia il giorno del suo compleanno. Tutto complotta perché lui non possa farlo. Prima c’è la donna che non è affatto dell’idea di fargliela incontrare. Poi ci sono le altre macchine, i lavori, le gang di strada. 

Scatta qualcosa in lui che trasforma un uomo burbero e muscolare, ma fino ad ora sempre trattenuto, in un risoluto esecutore di ciò che ritiene sia bene per sé. Emergono le sue inquietudini sopite: un carburante che alimenta la sua violenza. La rabbia trattenuta come una pentola a pressione esplode, lo spinge abbandonare il veicolo nel traffico e a camminare sotto il sole con la faccia di Peter Finch in Quinto Potere.

È invincibile contro le bande che lo fermano per strada, quasi immune ai loro proiettili (in una scena gli sparano e lo mancano, ma il tutto è così grottesco e improbabile che sembra la sua pelle sia in realtà impenetrabile). La sua azione non è politica. Se la prende con il capitalismo, simboleggiato da un hamburger diverso da quello in foto “alto otto centimetri”. Ma è anche intollerante verso gli intolleranti, come un negoziante nazista in cui non si riconosce. 

William Foster è un villain, un nemico pubblico, a modo suo e diverso da tutti gli altri. Così all’opposto rispetto a tutti quelli che incontra che, ad un certo punto, pochi istanti prima del finale, diventa sì un simbolo del male, ma comprensibile. 

Un giorno di ordinaria follia è un film a due vie

Se dovesse esserci una misura dell’invecchiamento di un film, Un giorno di ordinaria follia starebbe nel lato dei film che vanno al contrario: più passa il tempo, più parla al presente.

Oggi il commento sociale è fin troppo imitato, insieme all'idea da cui parte, ma sarebbe un peccato ridurre il film solo a questo. William Foster ha il suo opposto nel sergente Martin Prendergast (Robert Duvall). È scritto come un cliché ambulante, ma ha dentro molto altro se accostato all’uomo che cerca di catturare. Prendergast è all’ultimo giorno di servizio. L’ultimo è sempre il più pericoloso. La sua scelta di andare in pensione anticipata è vista male dai colleghi. Lo fa però per la moglie, per poterle stare vicino. Foster dirà la stessa cosa per figlia.

Il rapporto a distanza tra i due è quello che rende Un giorno di ordinaria follia così convincente nella sua tesi. Siamo tutti uomini (e donne) sull’orlo di una crisi di nervi. Ci sono tante brutte giornate che si possono allineare una dietro l’altra e infine una, quella più brutta, farà crollare tutto. Joel Schumacher usa un meccanismo che diverte moltissimo. Stabilisce la premessa di un uomo disposto a tutto pur di raggiungere il suo obiettivo. Poi, per tutto il secondo atto, mette alla prova questa idea con situazioni intercambiabili eppure ad alta tensione (e ironia). Poi però, quando serve, diventa ambiguo, sfumato, riflessivo. 

C’è sì la critica alla società, ma ci sono anche due uomini che decidono di fare le cose per sé, per una volta. Di non abbassare la testa. Uno fa un disastro. L’altro non lo sappiamo. Il sergente infatti esce incolume dal confronto, ma con l’idea di non andare più in pensione. Di seguire il suo desiderio, di non essere succube dei bisogni della moglie. Ma più che una conquista sembra una pericolosa sirena che lo porta lontano dal finale felice.

La ricerca della felicità

Felicità è la ragione. La più basilare delle motivazioni, eppure quella più trascurata nella scrittura. Forse non solo per colpa degli sceneggiatori. Il pubblico di oggi, cerca immediatezza e vuole sapere tutto, chiede che tutto abbia una ragione. Perché il nemico fa quello che fa? Qual è il suo retroterra psicologico, quale la sua più intima motivazione? 

Servono le risorse di un pianeta, quindi il villain lo conquista. Ci sono troppe poche risorse, quindi il villain ammazza mezzo universo. I sovrani si arrabbiano e fanno disastri, gli psicopatici cercano di sistemare il mondo secondo una loro filosofia. Il pubblico di oggi entra in sala chiedendo ai mostri di spiegarsi. 30 anni fa Joel Schumacher accoglieva in sala il pubblico chiedendo loro di identificarsi. 

Così Michael Douglas recita per essere un uomo comune senza altra motivazione che una intima e disperata ricerca della felicità. Crede di poterla trovare nella figlia, ma anche in quel lavoro che non ha più e che è così parte della sua identità. Continua ad andare in giro mascherato da impiegato anche dopo il licenziamento. È folle e vaga cercando una sua rivalsa da perdente in una società di vincenti.

Non capiremo mai, nemmeno dopo tante visioni, cosa lo spinge in questa autodistruttiva violenza. Non c’è alibi o giustificazione. Ogni volta però si finisce convinti che, nonostante il suo tono satirico e caricaturale, Un giorno di ordinaria follia potrebbe succedere a tutti. 

È così che si scrivono i personaggi, e soprattutto i villain. Perché se per un attimo ci si sente vicini a William Foster, nelle angosce, nella rabbia e nella stanchezza, è lì che inizia a fare veramente paura.

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