Ultima notte a Soho è il modo giusto per parlare di nostalgia
Ultima notte a Soho è un horror all’apparenza nostalgico, che invece decostruisce e smitizza i meccanismi della glorificazione del passato
Ultima notte a Soho è su Prime Video
Non solo Italia, però. Ultima notte a Soho deve molto anche a Mulholland Drive di David Lynch, con il quale condivide diversi spunti narrativi e (in parte) il tema di fondo, oltre a una sequenza che non ci stupirebbe scoprire essere un esplicito omaggio. A Hitchcock, ovviamente, soprattutto in fase di scrittura. Ci ritroverete anche un po’ di horror contemporaneo, nel bene e nel male. E siccome è un film di Edgar Wright, non è tutto lento ed elegante e anni Sessanta: ci sono, per quanto sporadici, i suoi montaggi, i suoi carrelli, tutte le belle cose che ci ha regalato in questi anni.
Ma al cuore di tutto quanto, oltre agli omaggi e alle citazioni e alle ispirazioni e ai paragoni con altri grandi del passato, Ultima notte a Soho è un film molto inglese e molto personale. Parla di un periodo specifico in una città specifica in uno specifico quartiere, che al tempo, tra Beatles e prostituzione, sembrava il centro del mondo, ai londinesi e non solo. Di più: parla della specifica visione di questo luogo di una specifica persona (Edgar Wright, ovviamente), che ha vissuto a Soho negli ultimi venticinque anni ma che è nato e cresciuto lontano dal centro del mondo, nel Dorset, con in lontananza il mito degli anni Sessanta, di quella musica, di tutte le cose – belle e brutte – che gli raccontavano i suoi genitori sulla Swinging London.
Quando cresci con il mito di qualcosa, il rischio è sempre quello di farti prendere la mano, di smarrirti nella ricerca di una perfezione che non esisteva e infine di arrivare a credere che, per un qualche magico e inspiegabile motivo, allora si stesse meglio che ora. È il discorso che facevamo in apertura accennando a Stranger Things, una serie che reimmagina l’adolescenza negli anni Ottanta espungendo tutti i lati scomodi (tranne quelli utili a livello narrativo) e dipingendo quel decennio come una sorta di paradiso, un luogo magico dove tutti hanno una BMX e dei boschi dietro casa dove vivere mille avventure. La Swinging London è il luogo (e il tempo) perfetto per un’idealizzazione estrema, talmente spinta da finire svuotata e trasformata in uno spettacolo circense.
Edgar Wright lo sa (e l’ha detto), e quindi Ultima notte a Soho è tutto un lungo e arzigogolato modo per chiedere a chi guarda: davvero si stava meglio prima? È un’esplorazione del sottobosco di Soho in quegli anni, dove una ragazza poteva arrivare dalla campagna con sogni di gloria solo per ritrovarsi a prostituirsi per quattro soldi in attesa della sua occasione. È uno sguardo moderno a un tempo passato, che ne mette allo scoperto anche le brutture; un’operazione non dissimile da quella fatta da Del Toro di recente con il suo remake di La fiera delle illusioni, con la differenza che il film di Wright si muove su due piani temporali differenti e può quindi mettere il passato alla prova del presente.
Da fuori poteva sembrare una meraviglia, ci dice Wright. Le luci, i colori, la gente, gli spettacoli licenziosi che proseguivano fino a tarda notte annaffiati di alcool e acidi vari… Ma come in Mulholland Drive non è tutto oro quello che luccica, e quando sei a Londra e non sei attrezzata corri il rischio di smarrirti tra gli specchi (essendo un film molto ispirato al giallo all’italiana, Ultima notte a Soho è pieno di specchi e di scale), oppure di sdoppiarti e perderti nel passato ignorando il presente. È un film che racconta una storia tutto sommato semplice ma la nasconde il più possibile, svelando solo quello che serve, quando serve, e introducendoci dunque con pazienza all’orrore che vuole rivelare: all’inizio sembra di assistere a una celebrazione acritica degli anni Sessanta a Londra, e il messaggio che Wright vuole far passare arriva con estrema calma.
Tutto questo impianto sta in piedi perché sorretto da una sceneggiatura che – al netto dell’ormai inevitabile rallentamento del secondo atto, una delle piaghe del cinema contemporaneo – intrattiene, stupisce e tiene incollati alla sedia con un numero più che discreto di colpi di scena. E da un regista che è in stato di grazia dall’inizio della sua carriera, e qui spreme cinema da ogni singola inquadratura, mostrando tutto quello che può e limitando le chiacchiere al minimo. Ma una parte non indifferente del merito del successo (almeno in quanto oggetto cinematografico: al box office ha floppato malissimo, purtroppo) di Ultima notte a Soho va attribuito al cast, e alle due protagoniste in particolare.
Anya Taylor-Joy è una creatura sovrannaturale, come già sapevamo da tempo, e qui Wright le cuce addosso il personaggio perfetto: un sogno (con qualche tratto da incubo neanche troppo nascosto), un’apparizione che sembrava vivere spostata un po’ di lato rispetto alla semplice realtà. Ma la vera sorpresa è Thomasin McKenzie, che non solo riesce a non scomparire a fianco della sua raggiante compagna di set, ma anzi le tiene testa e riesce a riempire altrettanto la scena senza mai bisogno di sgomitare. Quando c’è l’una, l’altra o entrambe, si fa fatica a concentrarsi sul resto, che pure ci regala un Matt Smith sempre all’altezza, una magnifica Diana Rigg (al suo ultimo ruolo prima della morte), Terence Stamp e persino Rita Tushingham, che nel 1965 fu protagonista di Non tutti ce l’hanno, film simbolo proprio della Swinging London.
Proprio quest’ultima scelta è una delle tante dimostrazioni dell’innegabile amore di Edgar Wright per il periodo raccontato in Ultima notte a Soho. Amore che però non è cieco, e non diventa mai adorazione acritica: c’è differenza tra nostalgia, fascino del passato e la convinzione che le cose un tempo andassero genericamente meglio, e questo film esiste per dimostrarcelo.