Tutti i sogni che Quentin Tarantino ha messo in C'era una volta a… Hollywood

C'era una volta a… Hollywood è un diario dei sogni ad occhi aperti di Quentin Tarantino vissuti attraverso i suoi personaggi.

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Che C'era una volta a… Hollywood sia un film sulla nostalgia verso un immaginario tramontato lo dice la colonna sonora, fatta da brani dell’epoca e persino da incredibili pezzi pubblicitari passati in radio in quegli anni. Sono stati recuperati con un sublime lavoro di ricerca negli archivi. Che Quentin Tarantino sogni tutto ciò attraverso i suoi personaggi lo dice la sua filmografia. Il suo film più recente, che dovrebbe essere il penultimo della sua carriera, è il più personale proprio perché ambientato interamente nel suo mondo interiore.

I sogni sono di Quentin Tarantino, non dei suoi personaggi

Qualche tempo fa l’attore Rick Dalton è morto. Quentin Tarantino ne ha dato la notizia con grande cordoglio. Solo che Rick Dalton non è mai esistito al di fuori della sua testa, è il personaggio interpretato da Leonardo DiCaprio e niente di più (sebbene sia ispirato a Ralph Meeker e altri attori dell’epoca). Si dice che il cinema d’autore ami andare dritto nelle sue storie e poco abbia a che fare con gli infiniti giri narrativi del multiverso. Eppure Tarantino vive in un mondo a parte, il suo. Uno spazio che è cinema, respira cinema, fa cinema.

C'era una volta a… Hollywood è un Mulholland Drive tarantiniano, non per stile ma per carica onirica. Un film fatto da sogni ad occhi aperti generati dalla città dei sogni. Il più clamoroso è quello di Cilff Booth, un Brad Pitt senza canottiera che sale sul tetto e ripara l’antenna del televisore. Da quella posizione di favore ricorda (o sogna?) che cosa è accaduto quando lui, vecchio stuntman di razza, ha sfidato a duello il nuovo che avanza: il maestro di arti marziali Bruce Lee. La rissa finisce con una macchina ammaccata e il rischio di danneggiare le preziose mani di Lee. Booth, che si dice abbia ucciso sua moglie, è irascibile e incontrollabile. Viene perciò bandito da tutti i set.

Non gli resta che vagare nella vecchia Hollywood, quella lasciata a morire nella sua sonnolenza (come il proprietario del ranch George Spahn), invasa dagli hippy che ne hanno fatto la loro nuova casa.

Ce ne sono molte altre di sequenze in cui un personaggio immagina qualcosa. Si capisce che sono momenti soggettivi, quindi poco attendibili (Booth non può avere realmente malmenato così Lee), solo quando finiscono. C'è Sharon Tate che si guarda ipnotizzata al cinema, DiCaprio al posto di Steve McQueen ne La grande fuga, o un lanciafiamme oggetto di scene nel film che risolve il problema anche nella realtà narrativa di Rick Dalton. È molto difficile capire quale sia il confine tra ricordo e fantasia. Ma in fondo, è proprio su questa linea che si muove C'era una volta a… Hollywood.

C'era una volta a… Hollywood è un film da fine carriera

Non è l’ultimo film del regista (arriverà The Movie Critic), però se lo fosse sarebbe una chiusura perfetta. Una sceneggiatura quasi a episodi, costruita su istanti di un tempo che non c’è più. Questi si legano in un finale dal grande entusiasmo e senza freni che sconfina nel cinema più puro: quello di genere, quello che se ne frega di tutto. Della plausibilità e della storia. Dell’informare lo spettatore e del concedergli quello che si aspetta. Siamo come il cane di Cliff: con l'acquolina in bocca vediamo cadere nel piatto, un pezzo dopo l'altro, il cibo. I padroni (Cliff e Tarantino) ci dicono di aspettare, di avere pazienza, fino a che, sul finale, non possiamo abbuffarci.

La prima volta che si vede C'era una volta a… Hollywood si sospira guardando Sharon Tate, ogni scena in cui c’è lei sembra presagire ciò che sta per succedere di lì a poco. Ci si aspetta di vedere l’eccidio di Cielo Drive girato con la crudezza tarantiniana. Invece il regista che ama i film più della realtà stessa non vede alcuna ragione nel costringerci a subirla. Ci permette di sognare, almeno al cinema, un finale diverso.

Non importa se non è la prima volta che lo fa (si veda Bastardi senza gloria) quello che conta è l’effetto che ha tutto ciò nell’esperienza. Con la prima visione non ce lo si aspetta e si gusta questa deviazione dalla realtà in una maniera esilarante ed esaltante. L'abbuffata promessa. La seconda volta che si vede il film cambia proprio l’atteggiamento con cui ci si immerge. Lo si vive proprio come quella fiaba già esplicita sin dal titolo

Le fantasie cambiano gli equilibri nella realtà

Un film sulle fantasie ad occhi aperti che Hollywood concede ai suoi spettatori, ma anche ai suoi lavoratori. La città del cinema è un regno in cui tutto ciò ciò che accade nella finzione si ripercuote in qualche modo sulla realtà. Lo dice Al Pacino a Leonardo DiCaprio in una scena verso l’inizio: è un vecchio trucco tipico dei network. Quando hanno un nuovo attore da far amare al pubblico lo mettono in una serie TV scritturando come antagonisti le star delle trasmissioni rivali. Gli fanno fare la parte del cattivo che le prende dal buono. Di sconfitta in sconfitta lo spettatore non vede più la star, bensì il personaggio delle vecchie serie di altri network che viene preso a calci dai nuovi. Quello che succede nella finzione ha un effetto su come il pubblico percepisce gli interpreti nella realtà.

È per questo che Rick Dalton e Cliff Booth, insieme a gran parte degli abitanti della città, si fermano a fine giornata per rivedersi sullo schermo come in un rito collettivo. Devono verificare se il loro alter ego cinematografico si è comportato bene. 

C’era una volta… Quentin Tarantino

È come se esistesse un film festival all’interno della testa di Tarantino. In concorso non ci sono i film realmente prodotti, ma quelli appartenenti a fantomatici attori e registi che mai hanno calcato questa terra. Vengono da tutto il mondo (interiore del regista), specie l’Italia. Sono le spassosissime locandine di film che non esistono. Però è come se lui, e solo lui, li avesse visti con i suoi occhi. Li affianca pertanto senza problemi a quelli veri.

C'era una volta a… Hollywood è un film che ha come set principale le strade. Tarantino non ha più bisogno di sedurci con una trama, quando entriamo in sala siamo già ben disposti. Si può permettere di agganciarci a due personaggi - un attore che lavora con la faccia, l’altro che vive nel corpo e nell’azione - che per quasi tutto il tempo si limitano ad attraversare una Hollywood verosimile ma irreale.

La Hollywood di Quentin Tarantino è di finzione, ma conserva la stessa atmosfera di quella su cui si è formata il regista, quella che immaginava quando guardava i suoi primi film (è nato nel 1963). È la cosa più vera, che nemmeno un documentario può catturare.

Spesso Quentin Tarantino lamenta pubblicamente di vivere in un periodo cinematograficamente poco appagante. È una battaglia personale per il suo modo di intendere il cinema e per quello che l’industria dovrebbe dare ai creativi. Sa di partire sconfitto. Sa che quel clima di libertà, di folle entusiasmo ed imprese insensate non può tornare. E allora perché non sognarlo, per quasi tre ore, facendone un film?

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