Trent'anni di Darkman, il "non-cinecomic" perfetto

Il film di Sam Raimi compie trent'anni ed è ancora oggi un film di supereroi avanti sui tempi

Condividi

Trent'anni di Darkman, il "non-cinecomic" perfetto

Esattamente trent’anni fa usciva al cinema la prima avventura di uno dei supereroi più sfigati della storia.

Sfigato nella finzione, perché se hai la faccia di Liam Neeson nel fiore degli anni e vieni orribilmente sfigurato e costretto a vivere nell’ombra per non mostrare il campo di battaglia che è divenuta la tua faccia fortunato non sei.

Sfigato nella realtà, perché nonostante un più che discreto successo di pubblico e critica il povero Peyton Westlake non è mai riuscito non solo a ripetersi, ma neanche a tornare in sala, limitandosi a comparire, ovviamente con un’altra faccia, in due moscissimi sequel direct-to-video.

Era il 24 agosto 1990 quando l’opera di cui festeggiamo il compleanno uscì al cinema, e non c’è occasione migliore per ribadire quanto Darkman sia uno dei migliori film di supereroi mai fatti, e uno dei più coraggiosi.

Datevi fuoco (cit.)

Darkman è il primo film che Sam Raimi girò con alle spalle il sostegno di una major dopo il relativo successo dei due Evil Dead (e il flop di I due criminali più pazzi del mondo, scritto insieme ai fratelli Coen, a dimostrazione che raramente c’è giustizia su questa Terra), e sarebbe dovuto essere tutt’altro. O meglio, sarebbe dovuto essere un progetto che si materializzò davvero solo quattro anni dopo e con un altro regista, cioè l’adattamento di The Shadow con Alec Baldwin nei panni del protagonista: Raimi, che voleva debuttare a Hollywood con un film di supereroi, non riuscì ad assicurarsi né i diritti sul fumetto di Walter Gibson né quelli di Batman (per il quale venne invece chiamato Tim Burton), e la risolse inventando da zero il suo supereroe, con la sua mitologia, i suoi “superpoteri”, i suoi supervillain.

È una mossa che oggi difficilmente troverebbe finanziamenti, non quando ci sono ancora da portare al cinema all’incirca ottomilasettecentosessantacinque supereroi di cui esistono già i fumetti e per i quali bisogna quindi spendere meno in sceneggiature; nel 1990 invece, anche sulla scorta del successo del Batman di Tim Burton e di certe sue atmosfere tra l’horror e il noir, questa storia di uno scienziato che viene arso vivo e decide di vendicarsi dei criminali che l’hanno appicciato convinse la Universal a dare una quindicina di milioni a chi l’aveva scritta (cioè Sam Raimi, che mai aveva visto così tanti soldi tutti insieme per un solo film) e a lasciargli libertà creativa più o meno totale, che è il motivo per cui Darkman è anche un incredibile esercizio di pazienza e moderazione da parte del suo regista.

Hai detto "antieroe"?

La storia è appunto quella scritta poco sopra: Peyton Westlake è un uomo di scienza che sta lavorando a una pelle artificiale stampata in 3D (nel 1990, non nel 2019!) per aiutare le vittime di ustione, e la sua compagna Julie Hastings è un’avvocatessa che scopre un documento che dimostra la corruzione del palazzinaro per cui lavora, il quale spedisce i suoi immancabili scagnozzi a recuperare il documento ed eliminare la testimone. Nel processo gli scagnozzi danno fuoco a Westlake che invece di morire diventa una sorta di Fantasma dell’Opera estremamente nervoso: ricostruisce il suo laboratorio, ricomincia il suo lavoro alla pelle artificiale (che funziona, ma si scioglie dopo 99 minuti di esposizione alla luce solare), e incidentalmente raccoglie informazioni sui criminali che l’hanno trasformato in un mostro e comincia a eliminarli uno a uno.

In altre parole Darkman è il genere di film per il quale si spreca l’uso di parole tipo “antieroe” e “lato oscuro”, oltre che l’altrettanto classico “supereroe senza superpoteri”. Westlake è uno scienziato geniale a cui questo fatto di essere stato bruciato vivo ha creato un po’ di problemi di gestione della collera, oltre ad averlo fatto sottoporre a una terapia che ha inibito per sempre i suoi recettori del dolore e lo rende propenso ad avere scariche di adrenalina che gli forniscono una temporanea superforza. Quindi sì, è un supereroe, per quanto sui generis, ma è anche un tizio molto arrabbiato che vuole vendicarsi di chi gli ha rovinato la vita – Darkman non agisce (non in questo primo film, almeno) mosso da un qualche senso di giustizia o moralità, ma perché vuole vedere un po’ di gente soffrire. Gente brutta, gente criminale, ma pur sempre gente che invece di finire in galera salterà in aria, o prenderà fuoco, o verrà crivellata di colpi: diversamente dal Batman di Burton, uscito appena un anno prima, il Darkman di Raimi è un revenge movie il cui protagonista è privo di qualsiasi ambiguità morale o dubbio etico di fronte alla morte altrui – e in questo senso ricorda piuttosto un altro non-del-tutto-supereroe come Eric Draven, il cui primo adattamento cinematografico arriverà quattro anni dopo Darkman.

L'orrore, l'orrore!

Raimi stesso, quando parla di Darkman, spiega che ha trovato l’ispirazione non solo in quei fumetti di cui avrebbe tanto voluto avere la licenza, ma anche negli horror anni ’30 targati Universal; e in effetti il film guarda tanto a Batman quanto al già citato Fantasma dell’Opera o al Gobbo di Notre Dame, o volendo anche a Frankenstein, inteso come romanzo, come creatura ma anche come dottore, e quindi perché no anche al Dr. Jekyll e Mr. Hyde e a una più ampia tradizione di storie che coinvolgono scienziati e le loro creazioni. Ma la spina dorsale di Darkman resta comunque la sua matrice supereroistica; il film è strutturato come il 90% dei “primi capitoli” di franchise di supereroi usciti negli ultimi 15 anni, talmente contemporaneo che riguardarlo adesso significa trovargli difetti dei quali al tempo non ci si accorgeva – primo fra tutti il fatto di essere l’ennesima (che al tempo ennesima non era) origin story nella quale il protagonista passa l’80% del tempo che è in scena a fare tutt’altro e solo il 20% finale a diventare definitivamente l’eroe (super) della storia. O detta più brevemente: in Darkman c’è poco Darkman tanto quanto nei Batman di Nolan c’è poco Batman, e c’è sempre la sensazione di stare non solo vedendo un film ma anche investendo sulla visione dei due/tre/spinoff capitoli successivi di un franchise, sensazione che al tempo sembrava eccitante e oggi solo un po' stancante.

Tutte queste considerazioni un po’ meta-, però, svaniscono come la pelle sintetica di Liam Neeson dopo 99 minuti al sole quando ci si trova di fronte al film, e ci si gode lo spettacolo di Sam Raimi che realizza un sogno. E che lo fa, come dicevamo prima, con una sorprendente capacità di automoderarsi e mettersi al servizio non solo della storia ma delle necessità formali di un prodotto nato per lanciare un franchise e non per esaurirsi in novanta minuti. Darkman è con ogni probabilità il film più addomesticato della carriera di Raimi, quantomeno del Raimi pre-Spider-Man, concentratissimo sulle sue atmosfere fumose e industriali e sui turbamenti del suo protagonista, un film con migliaia di pallottole e decine di esplosioni nel quale però il regista si concede rarissimi momenti di vera locura.

Il che non significa che la città senza nome dove si svolge Darkman non sia uno sfondo cartoonesco contro il quale si sviluppa una vicenda altrettanto esagerata e parossistica, anzi: parliamo di un posto dove i criminali non si fanno problemi ad abbattere gli elicotteri della polizia perché essa stessa è stata comprata dallo stesso miliardario che foraggia le loro attività illegali, miliardario peraltro che si chiama Strack e possiede e dirige le Strack Industries, che cambieranno il mondo con la loro tecnologia avanzatissima costruendo una città del futuro le cui fondamenta poggiano su speculazione, corruzione e scienziati bruciati vivi. Nel costruire il setting, i rapporti di potere, anche la mitologia della città dove vive Darkman, Raimi non si è risparmiato né ha tentato neanche per scherzo la strada del realismo e della concretezza e di tutte quelle altre menate tutti quei concetti alti che hanno caratterizzato molti film di supereroi degli ultimi anni.

[caption id="attachment_443662" align="aligncenter" width="600"] Le scene con i ricchi criminali sono girate in set pulitissimi e lussuosi. Le scene con il povero scienziato sono girate in ambienti sporchi polverosi e decadenti. Lo scontro finale, com'è giusto che sia, si svolge all'ideale incrocio tra i due estremi: il pericolante cantiere dove si sta costruendo la città del futuro.[/caption]

Io vi troverò

No, è nella regia e nella gestione degli attori che Raimi si trattiene, e preferisce soffermarsi una volta di più sulla sagoma pensosa di Liam Neeson che grugnisce piuttosto che partire per un altro svolazzo. C’è poca comicità o humor in generale, pochissima slapstick nonostante Darkman sia un supereroe che non sente il dolore e il cui corpo potrebbe dunque venire sfruttato per un sacco di gag divertentissime, c’è tanta camera fissa o comunque tenuta a bada, forse addirittura una singola soggettiva di oggetto che si muove molto velocemente, per dire quanto il regista di La casa si sia messo in disparte per far parlare il suo personaggio. E la scelta è vincente anche perché Liam Neeson non solo è in parte ma è anche particolarmente preso bene dall’idea di recitare mascherato, come disse lui stesso in un’intervista; per cui Darkman sarebbe potuto diventare una baracconata e invece è un ottimo character piece, che tra l'altro anticipa certi temi che verranno poi approfonditi da Burton nel suo secondo Batman e nel quale il rapporto del protagonista con la sua deformità è anche più interessante della sua vendetta contro un gruppetto di criminali.

È un peccato che tutto lo sforzo profuso da Raimi e Neeson (e da Larry Drake, un po’ meno da Frances McDormand in una delle prestazioni più mosce della sua intera carriera) per costruire un personaggio interessante e fargli abitare un mondo con un’identità visiva molto definita e affascinante sia andato poi in fumo con i due sequel, due direct to video nei quali Arnold Vosloo prende il posto di Liam Neeson, con i quali Raimi non ebbe nulla a che fare e che qualitativamente si collocano tra il dimenticabile e l’imbarazzante. Sarebbe potuta essere la nascita di un franchise di successo, invece quello che ci rimane è “solo” un film di supereroi incredibilmente avanti, modernissimo, un’opera che più di ogni altro cinecomic di quegli anni anticipa quello che sarebbe successo vent’anni dopo grazie a Marvel. Tanti auguri Peyton Westlake, e per rispetto nei tuoi confronti niente candeline sulla torta.

Continua a leggere su BadTaste