Trappola di Cristallo, 30 anni fa, completava la sacra trinità del cinema d'azione

Trappola di Cristallo inventa l'eroe fragile che odia se stesso ma è pronto a tutto era il terzo angolo di un momento perfetto per il cinema d'azione...

Critico e giornalista cinematografico


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Non era facile nel 1987 immaginare un personaggio come John McClane e un film d’azione pensato intorno a lui.
Parte cowboy classico, cioè eroe riluttante ad entrare in azione (per la precisione Roy Rogers era il modello), parte sbirro disilluso e cinico con ex moglie e infine parte (quella nuova) fragile e disperato.

Notoriamente la parte fu rifiutata da Stallone, Schwarzenegger e altri action hero dell’epoca.

E giustamente.

Non era davvero un personaggio per loro, era diverso, era troppo fallibile per Schwarzenegger e privo del cotè da seconda occasione di Stallone. Era il terzo angolo della trinità che ha fondato l’idea di action movie che è rimasta valida fino a pochi anni fa: il robot inarrestabile, l’uomo che deve migliorare se stesso attraverso il sacrificio e ora anche lo strafottente uomo duro e rovinato.

Ci volle, a totale sorpresa, Bruce Willis, un attore che veniva dalla tv (Moonlighting) noto per la sua verve comica (solo un anno dopo Trappola di Cristallo avrebbe doppiato un neonato in Senti Chi Parla) per dargli quei toni che avrebbero completato il ritratto, quella strana forma di fragilità nascosta dietro una scorza dura, quella che spinge un divorziato che ha ancora la fede al dito a rischiare tutto per la ex moglie che sembra averlo dimenticato. Sotto Natale.
Prima ancora delle grandi scene, della scrittura, del rigore pazzesco nel dirigere di John McTiernan, prima di qualsiasi altro dettaglio è questo quel che il film ha centrato e i suoi seguiti (anche il terzo, il più riuscito) hanno mancato: creare una strana forma di eroe d’azione, fragile e a suo modo sentimentale, ordinario per molti versi ma pronto a tutto, invece di un supereroe infallibile (per quello c’erano già gli altri attori sopracitati).

La prima scena del film è forse quella cinematograficamente migliore, quella da studiare nei corsi di regia.

In un minuto e mezzo John McTiernan mette in scena con asciuttezza e decisione la sceneggiatura di Steven E. De Souza (il vero padre del cinema d’azione anni ‘80) e introduce un personaggio come nessun altro, che grazie a Willis ha bisogno di due espressioni di numero per raccontarsi.
Sull’aereo per Los Angeles un uomo stringe il bracciolo per la paura e ne vediamo la fede, il suo vicino gli spiega il suo trucco per non aver paura di volare: camminare a piedi scalzi. A quel punto quest’uomo che appare fragile si alza per prendere la valigia e lascia intravedere la pistola, è un poliziotto, ora entra la faccia da schiaffi, una battutaccia e poi ancora uno sguardo malandrino con la hostess. Stop. Un minuto e 35 secondi per introdurre il personaggio e lanciare anche un dettaglio da raccogliere in seguito (John McClane è così spaventato da quel che sta facendo sul grattacielo da farlo a piedi nudi, con relative gag quando non trova scarpe della sua misura).

Nasce qui l’action star che prende colpi e stempera la tensione con l’ironia (“Vieni a Los Angeles, vedrai ti divertirai!”) una caratteristica che già Stallone incarnava ma con un’aria più depressa. Quelli di Stallone sono sempre stati colpi presi per una mancanza di fiducia in sé (in ogni film) poi riconquistata con l’amore, la convinzione e l’allenamento. Invece l’action hero di Willis è l’uomo normale, non eccessivamente capace a far cose, a cui l’allenamento serve a poco e che anzi beve ed è rovinato, un uomo che alla fine della fiera odia se stesso e come si comporta ma resiste a tutto perché è duro. La quintessenza del duro, quello proprio duro a morire.

Intorno a questo nuovo tipo di protagonista si incastra la tempesta perfetta. Perché allo sceneggiatore fondamentale una volta tanto è affiancato il regista più intellettuale che negli anni ‘80 abbia lavorato sull’azione, l’ombroso John McTiernan, reduce dal successo di Predator e con mille idee nella testa. Fino poi all’esordio sul grande schermo di un attore inglese di teatro con qualche esperienza di tv, Alan Rickman che prima ancora che ci si mettesse Jeremy Irons (due film dopo chiamato ad interpretare suo fratello) disegna la maniera in cui prendre l’esperienza teatrale britannica (principalmente shakespeariana) per creare i villain di nuova generazione, affascinanti e profondi.
Scetticissimo e molto snob riguardo il coinvolgimento in un film d’azione, per convincere Rickman ci volle Joel Silver, un produttore stile Weinstein, furioso, eccessivo e dominatore (che poi proprio per questo si è poi rovinato da sé, senza bisogno di molestare, almeno a quanto sappiamo oggi), un vero urlatore di ordini che praticamente gli impose di “muovere il culo” prendere l’aereo ed accettare quest’incarico.

Rickman dirà poi di essersi stupito di quanto sia eccitante sparare con un mitra.

Film di Natale per un pubblico che i buoni sentimenti li accetta solo avvolti nell’esplosivo al plastico e pretende che il cinema d’azione sia prima di tutto un cinema di personaggi duri in situazioni pericolose, uno per il quale tutto quel che di intimo viene detto sui personaggi deve riceverlo non tramite parole o dichiarazioni ma tramite i fatti, Trappola di Cristallo è diventato per almeno 20 anni il piano regolatore di qualsiasi film d’azione, la sua formula e il suo modo di intendere l’uomo duro sono stati copiati da tutti quelli che non potevano essere né Stallone,Schwarzenegger né avevano le capacità di Van Damme (Jason Statham ancora si appoggia a quella mitologia).

Eppure quel che in pochi produttori hanno capito è che il segreto del film stava nell’approccio strettamente filmico alla materia. Non solo, come già detto l’ispirazione poco nascosta è il western (“Yippie ki yah, kids” diceva sempre Roy Rogers, attore e musicista che ha incarnato il West per tutti gli anni ‘50, Willis ci ha aggiunto solo il “figlio di puttana”) e tantissimo cinema non d’azione del passato. Per fare un esempio McTiernan si era rivolto al direttore della fotografia che Paul Verhoeven aveva importato in America, Jan De Bont per creare una fotografia notturna molto contrastata ed unica, di gran personalità, tutta realizzata con lenti capaci di lavorare a bassissima luminosità (per coincidenza proprio le stesse con cui Kubrick filmò Barry Lyndon, solo anamorfiche).

Jan De Bont poi avrebbe diretto Speed, che è Trappola di Cristallo sulle ruote.

John McTiernan era insomma un vero anticonformista, che aveva a cuore l’azione tanto quanto il cinema tradizionale, una persona che ha sempre dichiarato di guardare spesso i film stranieri senza sottotitoli perché gli interessa molto di più come vengono dette le cose più che cosa venga detto, e sempre nei suoi film ci sono degli stranieri non tradotti (l’apice in questo senso lo toccherà in Il 13esimo Guerriero). Un regista vecchio stampo, che adora gli uomini e la loro mentalità, le loro debolezze e quel che di primitivo scatenano le situazioni pericolose. L’unico che può partorire sia scene come quella d’apertura che l’inquadratura di Hans Gruber che vola giù dall’ultimo piano del grattacielo che aveva conquistato.

Oggi, 30 anni dopo, Trappola di Cristallo non è invecchiato nemmeno di un giorno eppure è un modello superato.

Il film con l’eroe solitario alla riscossa, incaricato di salvare la baracca anche se lui è il primo a pensare di non potercela fare, è sorpassato da un cinema d’azione riforgiato da Nicolas Winding Refn e che registi come S. Craig Zahler o Jeremy Saulnier portano avanti. Nato da quelle ceneri, questo cinema d’azione nuovo mantiene quel tipo di durezza ma non la esalta, non gode con i protagonisti, anzi. Preferisce creare atmosfere, raccontare un quarto degli eventi e concentrarsi maniacalmente sulla sensazione di pericolo, paura e morte imminente del cinema d’azione. Ironico, a suo modo, ma mai sbruffone come Steven E. De Souza e soci, anzi terribilmente rispettoso del rischio.

 

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