Transformers 4 – L’era dell’estinzione è un reboot prima che un sequel

Transformers 4 – L’era dell’estinzione prende molti degli ingredienti che avevano decretato il successo della prima trilogia e li butta dalla finestra

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Transformers 4 – L’era dell’estinzione va in onda su Italia 1 questa sera alle 21:20

La chiave di lettura migliore per approcciare Transformers 4 – L’era dell’estinzione sta secondo noi in queste poche, promozionali parole di Michael Bay e Lorenzo Di Bonaventura relative al quarto capitolo del franchise, “un sequel e non un reboot” come ce l’avevano presentato al tempo. Bay dice che Transformers 4 «è come fare Batman con una nuova tuta: dobbiamo cambiare tutto il look, da cima a fondo». Una scelta dettata non tanto da esigenze creative quanto dalle proteste di milioni di persone che, parlando dei tre Transformers precedenti, si lamentavano del fatto che l’azione fosse incomprensibile e che rendesse impossibile distinguere Autobot da Decepticon, con il risultato che ogni scena di combattimento era poco più che un’orgia di metallo senza costrutto e leggibilità.

Si può essere o meno d’accordo con questa valutazione – noi abbiamo già detto la nostra sul Bayhem più volte parlando di Transformers – ma resta il fatto che, nel 2014, Michael Bay si trovò costretto a rinunciare almeno in parte al suo stile visivo per accontentare le richieste del pubblico. E Di Bonaventura ed Ehren Kruger, a quel punto unico scrittore rimasto, ne approfittarono per rinfrescare altri aspetti del franchise, stravolgendoli e rendendoli molto più adatti al target ideale dei film. Il risultato è che sì, Transfomers 4 è un sequel ambientato quattro anni dopo il terzo capitolo, senza retcon né grosse novità in generale (lo schema è sempre quello da episodio del cartone: Megatron è tornato, vuole distruggere il mondo, gli Autobot lo fermeranno).

Ma è soprattutto un reboot, stilistico, tematico e anche emotivo.

La scelta che più di tutte spicca fin dai primi minuti è quella di mettere metaforicamente in soffitta Shia LaBeouf e tutto il suo portato di stranezza. Sam Witwicky era un eroe improbabilissimo, senza un vero scopo nella vita, sempre accompagnato da due genitori insopportabili, un bambinone convinto del fatto che avere salvato il mondo un paio di volte sia un lasciapassare per non crescere mai del tutto. Transformers 4 getta dalla finestra queste indecisioni per regalarci un protagonista molto più potabile e perfetto per le famiglie: un Vero Padre Americano con la faccia di Mark Wahlberg.

Cade Yeager, il cui cognome potrebbe essere un omaggio a Pacific Rim o un modo per mandare in confusione la gente, è un padre single con la bandiera del Texas in garage e una figlia (Nicola Peltz) che vuole proteggere a tutti i costi dalle grinfie del resto del mondo. È un inventore squinternato che costruisce solo cose che non funzionano e si circonda di buffi robottini, e in questo modo, con un paio di abili mosse, Transformers 4 si libera dello spettro di Shia LaBeouf e ci propone due protagonisti che coprono tutte le basi: Mark Wahlberg è un modello per i papà, un sogno erotico per le mamme e un affidabile spaccaculi per i figli, mentre Nicola Peltz copre tutta la quota adolescenziale e dintorni (con l’aiuto di quel tonno insuperabile del suo fidanzato, Jack Reynor).

Spariscono così le gag imbarazzanti sulla masturbazione e si riducono anche (pur senza sparire del tutto) i primi piani del fondoschiena della Bella Ragazza del film, e tutto Transformers 4 assume un tono generale più amichevole e meno stridente – più classicamente anni Ottanta e meno assurdamente Bay. Wahlberg in particolare è un eroe da manuale: gli viene anche dato molto più spazio in termini di azione, perché da bravo texano è un appassionato di armi e, armato con un fucile alieno, partecipa attivamente alle battaglie decisive del film. Sono scelte che eliminano o quantomeno riducono quella distanza tra “azione con i robottoni” e “scene buffe con Shia LaBeouf” che caratterizzavano i primi due film.

L’altra aggiustata decisiva è quella al look dei Transformers, e anche qui Bay punta su una soluzione elementare e un po’ pacchiana: a distinguere gli Autobot in particolare non è solo il color coding ma una serie di elementi quasi caricaturali (il robot con barba e sigaro, quello giapponese doppiato da Ken Watanabe e vestito da samurai…). E per sfruttarli al meglio, Bay rinuncia in Transformers 4 alla sua caratteristica principale: i combattimenti sono strapieni di slo-mo, di campi lunghi e di botte a figura intera, spariscono quasi completamente i grovigli di metallo della prima trilogia e tutta l’azione assume un’aria molto più normale e comprensibile – un bene per chi si lamentava del Bayhem, un male per chi invece vedeva nello stile di Bay applicato ai robottoni il vero segreto del successo del franchise.

Chiudiamo con tre rapide considerazioni. La prima è che, reboot o meno, quasi tutti i difetti dei film precedenti in termini di costruzione dei personaggi e scrittura dei dialoghi ritornano immutati: i primi tre Transformers erano film scemi e Transformers 4 lo è altrettanto. La seconda è che a tratti pare che Bay non avesse tutta questa voglia di girare il film, che è insolitamente pieno di errori marchiani soprattutto in fase di montaggio (ci sono enormi problemi di continuità in almeno tre sequenze diverse).

La terza è che il film dura due ore e mezza, e una volta che è finito si capisce il perché: parte dei soldi della produzione arrivano dalla Cina, e quando a Kruger hanno detto “dovresti integrare questa cosa nel tuo film” la sua soluzione è stata scrivere una normale sceneggiatura, e poi appiccicarci tre quarti d’ora ambientati a Hong Kong utili a far vedere un po’ di star cinesi e a fare un po’ di pubblicità al Partito Comunista Cinese. Terrificante il momento in cui la polizia di Hong Kong si rende conto che da sola non può fermare i Decepticon e capisce quindi che non può fare altro che rivolgersi al governo centrale, che “non permetterà mai che a Hong Kong succeda qualcosa di male”. Ouch.

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