Transformers 3, raccontato con le recensioni di allora
Transformers 3 compie dieci anni: ecco come venne accolto nel 2011, quando incassò una valanga di denaro e di critiche
Non crediamo di esagerare se diciamo che Transformers 3 è uno dei film più divisivi e criticati del millennio in corso. D’altra parte è il terzo capitolo di una epopea tra le più divisive e criticate del millennio in corso, diretto da un regista tra i più… ci siamo capiti. È l’apice di un percorso, e in quanto tale amplifica a dismisura tutti i pregi e i difetti del franchise di Transformers: era ovvio fin dal momento della sua uscita che avrebbe generato opinioni parecchio discordanti, contrapponendo da un lato il fandom di Bay e del suo ipercinema, dall’altro chi non apprezza i buchi di trama, i personaggi mal sviluppati e anche, diciamo pure soprattutto, Bay e il suo ipercinema. Da allora la saga è proseguita, prima con un capitolo di pari successo ma di non altrettanta qualità, poi un altro ancora e poi con uno spin-off; mentre aspettiamo il nuovo film vale la pena fermarci un attimo, guardare indietro e ricordare Transformers 3 – non con il senno di poi, ma andando a scoprire che cosa ne disse la critica al tempo, quando l’argomento era ancora caldo.
Transformers 3 ignorava ogni critica sul lato narrativo per concentrarsi quasi esclusivamente su quello spettacolare. Era (è ancora oggi: in pochissimi l’hanno superato) un’esposizione di videoarte travestita da film, uno showcase del Michael Bay più videoclipparo – in senso buono – e ipercinetico. Dura due ore e trentasette minuti delle quali una abbondante dedicata alla battaglia finale a Chicago, durante la quale Bay mette in mostra tutto il suo repertorio e la sua straordinaria capacità di tenere sotto controllo decine di elementi diversi che si rincorrono sullo schermo tra un’esplosione e l’altra. È anche un film scritto malissimo, arrotolato su sé stesso e sempre all’inseguimento del MacGuffin magico o del colpo a effetto (il primo arriva già prima dei titoli di testa, con quell’intro che fa un po’ Zack Snyder e che ci spiega che dietro lo sbarco sulla Luna e l’incidente di Chernobyl c’erano i Transformers); di una lunghezza biblica e perfettamente inutile, visto che alla fine quello che ci si ricorda è soprattutto quello che succede a Chicago. È TurboBay, un film che dopo l’intro e i titoli di testa si apre con un’inquadratura dal basso del didietro di Rosie Huntington-Whiteley in mutande e camicia, con tutto quello che una scelta del genere comporta e significa.
È chiaro quindi che di fronte a un prodotto fatto di estremi, che riesce a far convivere alcuni dei peggiori dialoghi del millennio con scene che sono già diventate soggetto di serissimi saggi accademici, la critica del 2011 si divise, nel modo più classico e prevedibile. Prendete il classico riassuntone di Rotten Tomatoes, per quello che può valere: recita “gli effetti speciali sono spettacolari, ma non sono abbastanza per riempire la sua durata eccessiva o nascondere il fatto che il film abbia una sceneggiatura inesistente”. È la classica affermazione che si ritrova attaccata a quasi tutti i film di Michael Bay – le uniche eccezioni, stando a buona parte della critica: Armageddon, per la quota romanticismo, e Pain&Gain, conosciuto anche come “ah ma Bay quindi sa anche fare film!” –, un po’ (molto) banale ma che riassumere bene le reazioni ambivalenti suscitate dal cinema estremo e persino sperimentale di Bay.
Prendiamo Roger Ebert: secondo il critico americano, Transformers “esiste per mostrare giganteschi robot che si menano”; è una verità indiscutibile e che potrebbe (dovrebbe!) preludere a un bel voto, e invece “la trama non può essere descritta in termini di struttura, più che altro di durata: quando finisce è finito anche il film” e anche “non c’è stile né brillantezza nei dialoghi” e “c’è un effetto speciale, poi ce n’è un altro, e noi dovremmo essere grati di avere appena visto due effetti speciali di fila”. Si può anche essere d’accordo su certi dettagli, ma resta il fatto che lamentarsi dei dialoghi in Transformers 3 è come lamentarsi del fatto che la scena della rissa tra Hugh Grant e Colin Firth in Il diario di Bridget Jones non è ben coreografata. Un’altra autorità della critica americana, Richard Roeper, scrisse che “ho visto raramente un film così senz’anima e personaggi così poco interessanti”.
Dovreste aver capito dove vogliamo andare a parare: Transformers 3 è un oggetto cinematografico bello e scintillante che dovrebbe (e vorrebbe!) essere valutato esclusivamente per il suo aspetto visivo e tecnico e che si rende conto da solo di stare raccontando una storia un po’ sciocca e inutilmente complicata, e dieci anni fa venne accolto come fosse un nuovo film di Aaron Sorkin, e quindi smontato perché i dialoghi erano banali e i personaggi mal scritti. Shia LaBeouf e Rosie Huntington-Whiteley “non potrebbero essere più mosci” secondo Rolling Stone. Sempre la povera Rosie H-W “recita talmente male che Megan Fox al confronto sembra Meryl Streep” stando al New York Post (ignoriamo pure la mica tanto sottile frecciata alla povera Megan Fox, il cui talento va ben al di là di quanto mostrato nei primi due Transformers). È vero che stiamo parlando delle critiche standard che vengono mosse a qualsiasi prodotto “di genere” (action, fantasy, sci-fi…) più interessato alle peculiarità del genere di elezione che a incontrare i gusti generalisti di una critica per la quale un bel dialogo vale più di qualsiasi sequenza d’azione; ma è anche vero che, secondo noi, se Transformers 3 fosse uscito anche solo tre anni dopo, dopo che con Pacific Rim robottoni e critica avevano fatto finalmente pace, forse sarebbe stato accolto diversamente.
L’interpretazione migliore, secondo noi, è quella data da Richard Corliss del Time, che non è fan di Michael Bay ma che, unico nel panorama americano dell’epoca, dimostra di aver capito quantomeno la chiave di lettura giusta per il film. Questo passaggio in particolare dice tutto:
“Con Transformers 3, molti critici hanno smesso di essere orripilati da Bay e sono passati a un’incredula rassegnazione. Sono uno di loro. Mi rendo conto che Bay, nel bene o nel male, è l’anima di una nuova macchina, il poeta del cinema post-umano, il CEO della megacorporazione militaristico-intrattenitiva di Hollywood. T3 è l’equivalente cinematografico di un concerto thrash metal degli anni Ottanta (con i Megatron al posto dei Megadeth), con pezzi di dialogo inseriti qui e là come quando il cantante della band borbotta qualcosa tra una canzone e l’altra. […] È tutto parte di una grande, ostentata visione – che potremmo chiamare Bay-watch”.
È così che bisogna vedere Transformers 3, che piaccia o meno: non come un tradizionale film di robottoni e avventura, ma come il culmine di un percorso creativo che ha portato Michael Bay sempre più lontano dalle tradizionali strutture narrative per inseguire la videoarte, la decostruzione dell’immagine, il cubismo cinematografico. Per dirla con le parole del New York Times, “non riesco a decidere se questo film è così spettacolarmente idiota da togliere il fiato e indurre stupidità in chiunque lo guardi, oppure se è così violentemente geniale da sconfiggere la razionalità. C’è differenza tra le due cose?”. Valeva dieci anni fa e vale ancora oggi, amplificato: nessun altro film uscito dal 2011 ha più raggiunto i livelli sublimi di Transformers 3, i suoi picchi altissimi di creatività e i suoi abissi senza fondo di scrittura meno che elementare. Certo, sono usciti prodotti ancora più spettacolari, anche perché nel frattempo la tecnologia ha fatto i c.d. “passi da robottone gigante”; ma sono più potabili, più vendibili, più socialmente presentabili: pensate a Godzilla vs. Kong, solo per dirne uno. Michael Bay è un maestro dell’assurdo e Transformers 3 è il suo capolavoro: valeva nel 2011 e vale ancora oggi, dieci anni esatti dopo.
P.S. se vi state chiedendo “ma Badtaste come lo recensì?”, abbiamo buone notizie: già allora stavamo dalla parte dei buoni.