Toys è un giocattolone senza senso o con troppo significato?

Trent'anni di Toys, il surreale film di Barry Levinson con Robin Williams con un grande intento satirico e con tanta, troppa, morale

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La questione da dirimere su Toys è se voglia fare una predicatoria morale o se sia una genuina follia non sense. Probabilmente entrambe le cose, ed è questo il motivo per cui può affascinare e respingere allo stesso tempo. Un’opera figlia del suo tempo, che oggi compie 30 anni, scritta per fare annuire in assenso i genitori preoccupati per il diffondersi dei giocattoli di guerra. Gli stessi che, insieme al film, se la prenderanno per la violenza nei videogiochi attribuendole la causa della cattiveria dei figli. 

Barry Levinson ha fatto un adorabile disastro, ma l’ha girato palesemente con ambizioni altissime e con l’orgoglio di chi sta mettendo in scena una visione geniale. Ci sono tanti attori di prima categoria a cui è stato cucito addosso un personaggio in linea con il “tipo” da loro interpretato più amato dal pubblico. Robin Williams è l’eterno bambino che sorride nelle difficoltà, ha il cuore buono e ingenuo. Joan Cusack è una sognatrice svampita. Robin Wright è la bella da conquistare anche se in grado di prendere iniziativa autonoma. Michael Gambon è un generale mai inquietante, però dal fisico caricaturale, cattivo senza essere minaccioso. Da questi ingredienti è nato un film dall’intento satirico esplicito, smussato dalla banalità dei suoi messaggi, eppure sorprendente visivamente.

Toys senza story ma sempre con l’anima

Tre anni prima di Toy Story, la fabbrica del geniale imprenditore Kenneth Zevo produceva giocattoli inanimati. Gli ingeneri e gli operai li curavano con tanto amore e rispetto. Questi assumevano quasi una personalità propria. La fabbrica è immersa in un verde idilliaco da desktop windows. All’interno i macchinari sono colorati e hanno forme che ricordano quelle degli esseri viventi. Sono mani, occhi, animali… giochi che producono se stessi. 

All’improvvisa morte di Zevo l’impresa viene affidata al fratello Leland. La decisione sorprende tutti, dato che è un generale dell’esercito guerrafondaio ossessionato dalle armi. I figli Leslie (Robin Williams) e Alsatia (Joan Cusack) sono però ancora troppo immaturi per guidare un processo così delicato. I militari entrano così nella struttura e impostano una ristrutturazione radicale. Capiscono che i bambini, inconsapevoli, possono diventare dei piccoli soldati. Sono bravissimi a manovrare gli oggetti radiocomandati, esperti nei videogiochi e con capacità di improvvisazione insuperabili. Ribaltano la fabbrica per costruire piccoli strumenti da combattimento, a poco costo, come dei giochi e usarli così per vincere una guerra che nessuno saprà di combattere.

La doppia natura di Toys è raccontata bene dall’accoglienza riservatagli all’uscita. Candidato ai Razzie Awards per la peggiore regia ha concorso contemporaneamente all’Oscar per migliore scenografia e costumi. L’impianto scenografico è infatti maestoso. Come nell’impressionismo tedesco o nelle comiche di Tatì lo sfondo è comunicante. Attira l’attenzione, è preponderante rispetto a quello che fanno i personaggi. Loro si mimetizzano o entrano in contrasto con il luogo. Perché quello è un mondo di plastica e gli umani sono solo (graditi, per il momento) ospiti.

Una morale un tanto al chilo per sentirsi bene

La guerra è brutta, la fantasia va bene, nella vita serve leggerezza, l’anticonformismo è un valore, l’umorismo è il modo migliore per non appesantire l’ego. Quello che dice Toys attraverso i suoi personaggi sembra messo su un piatto d’argento a genitori, insegnanti ed educatori. Concetti semplicissimi a cui nessuno può dire di no senza sembrare un grigio militare incattivito. Barry Levinson gira un film palesemente spinto per compiacere gli adulti, convincendoli però - grazie alle gag slapstick e alla sciocchezza della trama - di essere intrattenimento anche per bambini. Per di più con il valore educativo di confermare tutto ciò che si dice in famiglia. Cioè che i videogiochi fanno male, che non bisogna litigare e fare attività violente, che le bambole sono belle e le pistole no. 

Nel mondo reale ben pochi acquisterebbero i confusionari e coloratissimi giocattoli Zevo. Un drone o un videogioco immersivo (senza bombe vere, si intenda) sono di assoluta maggiore attrattiva per i bambini. Erano gli anni ’90 che stavano arrivando con forza e una generazione non sapeva come leggerli. Toys è un modo per dire “sono con voi”, chiedendosi come sia possibile rinunciare ad adorabili vestiti di carta attacca-stacca preferendo macchine che spaccano le cose e fanno rumore. 

Come un pendolo il film oscilla tra due poli: uno fatto di insensatezza surreale, di ingordigia visiva in un teatrino dell’assurdo; l’altro è un composto j’accuse che lascia intravedere la voglia di smuovere le coscienze, di farsi grande grido di sdegno.

Le invenzioni di Toys sono però indimenticabili

Mission: Impossible - Protocollo fantasma è diretto da Brad Bird. La scelta del regista, formatosi nell’animazione, è quella di rappresentare i gadget tecnologici come giocattoli che a volte sono difettosi. In una spassosa scene di infiltrazione Ethan Hunt usa lo stesso strumento con cui Leslie Zevo si introduce nei laboratori segreti della sua azienda. Una citazione, forse, volontaria. Uno schermo riflettente, largo tutto il corridoio. Dietro c’è un proiettore che trasmette immagini viste dalle telecamere di sorveglianza. Ingannati, i custodi, credono che lo schermo si sia collegato a MTV in una lunga (!) sequenza canora tra Williams e Cusack che scimmiottano i videoclip allucinati.

C’è una battaglia finale che ricorda molto quella che Joe Dante perfezionerà con Small Soldiers, sempre all’insegna dell’antimilitarismo. Giocattoli buoni contro quelli cattivi. Una strage. Toys sembra un cartoon in live action così strambo, sbilanciato, ingenuo, che il suo contenuto si allinea però perfettamente con la trama e l’animo dei protagonisti.

Diventa così incredibilmente facile volergli bene. A Trent’anni di distanza, ma anche dopo pochi minuti dalla visione, si ricorda Toys non per quello che dice, ma per come lo fa. Ci si affezione più che ai personaggi alle pareti che si spostano durante una riunione schiacciando i presenti e accelerando il tempo decisionale. A un’irritante giacca rumorosa che emette suoni a ogni movimento. A quell’idea architettonica dove tutti gli spazi che non si può evitare di percorrere, come i corridoi e le scale, possano diventare un divertimento.

È qui che Toys trova il suo bilanciamento: nel dirci che il bene e il male passa anche dai luoghi in cui trascorriamo il tempo. Un posto di lavoro strutturato per stare bene, stimolerà la ricerca del bene. Gli spazi opprimenti, opprimono anche la mente. Nulla di nuovo, si intenda, ma solo il cinema riesce a dirlo così. 

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