Tomb Raider e la genealogia dell’avventura
Di sicuro Tomb Raider un elemento lo azzecca in pieno: Alicia Vikander è una Lara Croft migliore di quello che sia mai stata Angelina Jolie
Ora che sono passati tre anni dall’uscita e si comincia a parlare di un imminente (?) secondo capitolo possiamo riguardare a Tomb Raider e ammettere senza vergogna che il film di Roar Uthaug era condannato in partenza, e non avrebbe mai soddisfatto abbastanza gente contemporaneamente da venire promosso. C’erano troppi interessi contrastanti: chi avrebbe voluto una trasposizione 1:1 della versione giocabile e chi invece crede che i film tratti da videogiochi vadano scritti cercando di staccarsi il più possibile dalla fonte; il fandom di Alicia Vikander contro il fandom di Angelina Jolie; chi sognava un film violento e disperato come il gioco del 2013 da cui era tratto e chi sognava di poterci portare i figli per una bella serata in famiglia. L’unica speranza per Tomb Raider era quella di azzeccare abbastanza elementi da meritarsi un sequel, nel quale eventualmente preoccuparsi di fare un film e non solo di mettere d’accordo le mille voci del pubblico.
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In quanto oggetto cinematografico, il film di Roar Uthaug non è nulla di speciale, a partire da come è scritto – un problema che ci si poteva anche aspettare considerato che lo sceneggiatore Evan Daugherty ha in curriculum tra gli altri Biancaneve e il cacciatore e il pessimo Tartarughe Ninja di Jonathan Liebesman. La storia è un mix dei primi due capitoli dell’ennesimo reboot videoludico targato 2013, quello che negli ultimi anni ci ha portato a identificare Lara Croft con Camilla Luddington, ma con una serie di differenze chiave che si riveleranno poi uno dei punti deboli dell’opera. Tomb Raider è sempre stato, e lo è diventato in particolar modo dopo il 2013, la storia di una persona che deve confrontarsi con la sua eredità, in senso lato, e con il suo futuro: Lara è la figlia di un miliardario esploratore avventuriero, vittima dei suoi viaggi infiniti, rimasta orfana come i migliori supereroi, giovane e ancora in cerca della sua identità e della sua vocazione.
Tutto questo di per sé non è naturalmente un problema, ma lo diventa quando ci si rende conto che questo tentativo di abbassare le pretese, di ridurre tutti i conflitti del film a questioni familiari quando non personali, fa da antipasto a un’altra discesa sulla terra, che fa ancora più male al film. Ci riferiamo al fatto che Tomb Raider, il gioco e pure i suoi sequel, prendeva chiaramente una virata soprannaturale sul finale, e lo trattava come qualcosa di molto reale e tangibile. La Lara di Alicia Vikander, invece, si scontra fino alla fine solo con altri esseri umani, e anche quello che sembra essere soprannaturale è solo un gioco di specchi con una spiegazione perfettamente razionale – un approccio più adatto a Scooby-Doo che a un franchise che si ispira a Indiana Jones.
E proprio su quest’ultimo punto si gioca quello che è forse l’unico vero elemento di interesse di Tomb Raider insieme ad Alicia Vikander, e cioè la questione genealogica. Non della Lara Croft del film, ma di Lara Croft in quanto personaggio, e del modo in cui qui viene declinato. Tomb Raider si è sempre ispirato a Indiana Jones, ovviamente; e Uncharted, l’altro grande franchise action archeologico di questi anni, ancora di più. Le cose si sono complicate nel 2013, quando il reboot di Tomb Raider decise di aggiungere uno strato intermedio tra sé e la sua fonte primaria: il gioco guardava direttamente Uncharted dal punto di vista meccanico, narrativo e di set-piece, diventando così una sorta di remake di Indiana Jones visto dagli occhi di Nathan Drake e riappiccicato su qualche pezzo di Lara Croft.
È normale, sono influenze incrociate e non c’è nulla di male; diventa però più complicato se guardiamo al film. Perché in Tomb Raider del 2018 ci sono almeno un paio di scene madre che non sono ispirate a Indiana Jones, come capitava nelle versioni con Angelina Jolie, ma ad Uncharted e a certi trope inventati per quei videogiochi: la scena della cascata, per esempio, è costruita per accrezione di piccole sfighe che sommandosi provocano una valanga, ed è punteggiata da quei momenti di “oddio ce l’ha fatta e invece no perché l’appiglio a cui si è aggrappata sta scivolando nel vuoto” che sono tipici di Uncharted e che l’ultima versione videoludica di Tomb Raider ha emulato così tante volte. In queste sequenze c’è relativamente poco Indiana Jones, che ha sempre preferito soluzioni più esplosive e istantanee (il salto dalle cascate, il frigorifero atomico) a scene nelle quali il disastro si manifesta pian piano; e c’è molto delle radici videoludiche di Tomb Raider, che nella sua ultima incarnazione deve tantissimo ad Uncharted, che a sua volta deve tutto a Indiana Jones, che contribuì a definire anche la prima versione di Tomb Raider, e così via.
Il risultato è che si ha l’impressione di assistere a una sequenza infinita di cutscene prese da un generico videogioco action, le classiche scene da “film di videogiochi” che sono più divertenti da giocare che da vedere. E quindi tutto l’impatto del film non si regge né sulla maledizione-che-non-lo-era della regina Himiko (a proposito, la spiegazione che sta dietro a tutto quanto ha un impatto completamente nuovo post-pandemia), né sui rapporti tra personaggi che vengono caratterizzati tutti, nessuno escluso, con la profondità di un NPC random a cui tagliare la gola mentre si gioca, ma sulla povera Alicia Vikander, che ha fatto mesi di palestra e allenamenti durissimi non solo per poter fare da sé la gran parte dei suoi stunt, ma anche per non crollare sotto il peso di un film da 100 milioni di dollari che senza di lei non ne varrebbe uno – lo dimostra il fatto che quando i dialoghi lasciano il posto all’azione Tomb Raider diventa un grigissimo pastone sempre mosso e confuso. C’è da dire che Vikander ha le spalle larghissime e tutto lo spazio che serve per rifarsi con il secondo capitolo; speriamo solo che Tomb Raider: Obsidian (ammesso che venga fatto e che finisca per intitolarsi davvero così) si prenda le sue responsabilità e non lasci la povera ragazza di nuovo tutta sola a fare il film.