Tom Cruise punta tutto sulla United Artists

L’attore americano, dopo il divorzio dalla Paramount, ha deciso di dare una nuova vita alla storica casa di produzione, assieme alla sua socia Paula Wagner. Mossa astuta o ennesimo esempio della megalomania a cui ci ha abituato la star?

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Nel 1919, quattro dei nomi di maggiore successo di Hollywood (Douglas Fairbanks, Charlie Chaplin, Mary Pickford e D.W. Griffith) si riunirono per dar vita alla United Artists, una società di produzione indipendente. Oltre all’indubbia volontà di massimizzare i propri profitti, c’era l’intento (rivoluzionario per l’epoca) di controllare completamente il proprio lavoro.
L’avventura della United Artists, negli anni, ha subito diversi tracolli (era praticamente chiusa negli anni quaranta, mentre dovette essere venduta alla MGM dopo il fallimento de I cancelli del cielo all’inizio degli anni ottanta). E’ quindi un po’ sorprendente sentire che saranno Tom Cruise ePaula Wagner a riprendere in mano l’attività produttiva della United Artists.

Mentre il ruolo della Wagner è chiaro (sarà la CEO della United Artists, insomma la responsabile di tutte le operazioni), quello di Cruise è più ambiguo (si parla di interpretare e produrre film, ma anche della possibilità di lavorare con altri studios). Si parla attualmente di realizzare quattro film all’anno, distribuiti tutti dalla MGM.
Lascia invece sicuramente perplessi l’annuncio che la coppia vuole ritornare alle origini della UA, quando c’era “un organizzazione dello studio gestita da talenti creativi, in grado di incoraggiare e aiutare al meglio altri talenti” e tante altre frasi simili presenti nel comunicato ufficiale. Stiamo parlando dello stesso Tom Cruise che ha discusso aspramente con almeno tre dei registi impegnati nella saga di Mission Impossible (Brian De Palma, John Woo e Joe Carnahan, che alla fine ha mollato la regia dell’ultimo episodio), per poi optare per un neofita al cinema (anche se un grosso nome televisivo) come J.J. Abrams?

In realtà, la mossa è sulla carta abbastanza furba: si prende un soggetto come la MGM, che detiene il marchio UA, ha bisogno di grossi nomi per ritornare in auge e che quindi è disposta a pagare cifre che sicuramente gli altri studios (a cominciare dalla Paramount) non vogliono più sborsare. Si aggiungono termini come “libertà creativa” o “sostegno ai giovani talenti” e il gioco è fatto. Ma non è il caso di bersi tutta questa retorica. Semplicemente, vediamo cosa produce di buono (artisticamente e commercialmente) questa nuova United Artists e se durerà più delle altre versioni precedenti…

P.S.
Sui giornalisti italiani che hanno commentato questa notizia, parlando della fine dell’accordo di Cruise con la Paramount come se si trattasse del licenziamento di uno sfigato collaboratore a progetto, stendiamo un velo pietoso…

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