Tobe Hooper e la sua intuizione che il mondo dei film di paura può essere il nostro

Un film e mezzo bastano ampiamente per un'intera carriera. Come Tobe Hooper ha cambiato per sempre il cinema d'orrore e non solo

Critico e giornalista cinematografico


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Era figlio di un proprietario di una sala cinematografica Tobe Hooper, l’uomo che avrebbe poi cambiato una delle ragioni fondamentali, ancora oggi, per andare al cinema. La grande paura, il ribrezzo, la violenza e le emozioni fortissime che in sala sono aumentate dal senso d’isolamento e la grandezza dello schermo, prima di Hooper appartenevano ad una zona timorosa, dopo di lui sono diventate uno strumento.

Ricordato principalmente per Non Aprite Quella Porta e Poltergeist, è stato in realtà autore di tantissimo cinema di paura e anche televisione di paura, ha dedicato una vita a quella sottile rivoluzione iniziata con il film del ‘74 con un assassino dotato di motosega, mai superando i suoi esordi quanto a forza espressiva.

Una volta tanto non sembra un torto ricordarlo per un film e mezzo, cioè per Non Aprite Quella Porta e per il ruolo giocato in Poltergeist (di fatto realizzato almeno a metà con Spielberg), anzi è quasi doveroso.

L’opera giovanile di Hooper è e rimarrà per sempre il suo testamento, nonostante ci siano decine di altri film realizzati dopo quello. Contiene in sé tutto quello che questo regista aveva da portare all’arte cinematografica e alcuni tra i cambiamenti di fronte più importanti della storia del mezzo.

Prima di Non Aprite Quella Porta l’horror non era un genere sovversivo o lo era in punta di piedi e unicamente nel circuito indie (quello in cui si era mosso un altro rivoluzionario come Romero), i film di successo come sarebbe stato quello non venivano usati per dare voce ad istanze politiche e sociali, erano storie di stampo spesso gotico, oppure gialli con un’enfasi particolare sulla violenza e le atmosfere spaventose. Film che esistevano nel mondo del cinema ed erano slegati dalla società degli spettatori. Non Aprite Quella Porta, partendo da un inganno, dalla pretesa che gli eventi finti del film fossero in realtà veri, ha mostrato che l’universo del cinema di paura può dire qualcosa sul mondo di chi lo guarda, e può farlo a partire dalle sue di caratteristiche, senza fingersi un dramma o altro. A partire dai mostri, dagli arti smembrati, dal sangue copioso e dal quel senso di disagio indotto dal terrore.

Efficace su due livelli, quello del contenuto e delle immagini, capace di imprimersi sia con la scelta del suo carnefice (grosso, corpulento, vestito da macellaio, con una maschera di cuoio e armato di motosega, character design perfetto), sia con la delicata associazione di elementi. L’America desolata e le persone deformi, la pop culture dei mezzi di comunicazione e l’orrore di chi li riceve, il benessere dei ragazzi e la mesta indigenza dei carnefici, la pulizia contro la sporcizia e via dicendo, una serie di variazioni su un conflitto di classe che in realtà è un conflitto umano. Fondato su una serie di associazioni pazzesche, Non Aprite Quella Porta ha mostrato che alzare l’asticella della violenza poteva non essere solo un fattore di shock.

Più ancora di Poltergeist (che è un film ottimamente eseguito con idee non banali sul mondo dei media), Non Aprite Quella Porta ha dato un senso ulteriore alla violenza, allo slasher propriamente detto (che ha contribuito a fondare) e alla possibilità di impressionare il pubblico: chi sono le persone che perpetrano questa violenza e cosa esiste dietro di essa. L’horror fino a quel momento aveva mostrato la morte dietro la violenza, morte di chi la subisce ma morte anche di chi la perpetra, morte intellettuale, follia, malattia, sindromi patologiche, cattiveria. Non Aprite Quella Porta gioca su questo e mostra che dietro la violenza non c’è solo la morte ma una società intera che vive e vessa. Come in una partita di tennis si ha l’impressione che il colpo ricevuto da chi muore, sia la risposta proporzionata al colpo portato dalla società a chi uccide.

In questo stava un cambio copernicano. La violenza era folle ma aveva un senso, i killer erano psicopatici ma sembravano echeggiare altro, sembravano generati da qualcosa, mostriciattoli figli di un sistema che non li ha mai considerati, li ha tenuti ai margini e si è occupato invece dei ragazzi che vanno ai concerti. Scarti industriali, in zone in cui è pieno di altri scarti, discariche umane dove possono essere dimenticati e mutare, impazzire, uccidere, diventare mostri senza che a nessuno interessi. Almeno fino a che non fanno fuori qualcuno delle città, traducendo la violenza subita in colpi di motosega.

Hooper non si è più ripetuto a questi livelli. Quello che il suo secondo film importante, Poltergeist, ha portato qualche anno dopo è stata la possibilità di declinare queste idee anche in un ambito più familiare e confidenziale, rinunciare alla violenza, allungare la paura ma tenere fissa la bussola.

In particolare la relazione con gli oggetti, le case, gli ambienti e quello che essi dicono su chi le abita, sul benessere, sulla fruizione dei media e sul mondo che viviamo era il dettaglio meno spielberghiano e più tipico di Hooper. Il fatto che nel mondo di quel film a farci male sono quegli stessi oggetti che (forse) in un altro modo ci fanno male anche nel nostro di mondo, come quegli esseri umani orrendi della provincia che non esistono ma che sembrano il frutto di qualcosa che, quello sì, esiste.

https://www.youtube.com/watch?v=Vs3981DoINw

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