Tim Burton ha reimmaginato Il Pianeta delle Scimmie nel modo sbagliato
Mark Wahlberg come alternativa a Charlton Heston non era una grande idea, ma Il pianeta delle scimmie crolla per via di molte altre crepe
Nel 2001 fare un sequel di un film di successo era una pratica già ben consolidata. Creare un reboot di un classico era invece una novità. Per molti anni Hollywood aveva accarezzato l’idea di riprendere Il pianeta delle scimmie di Franklin Schaffner, che aveva originato ben quattro seguiti ed era entrato nell'immaginario collettivo e cinematografico. Sin dagli anni 80, dopo la fine della prima saga, si iniziò ad accarezzare l’idea di riprendere la storia del primo film e continuarlo ignorando le pellicole successive. Una serie infinita di traversie ne bloccò lo sviluppo per anni. Peter Jackson, Oliver Stone, Sam Raimi sono solo alcuni dei registi che, in un ventennio, hanno cercato di proporre la loro versione “attualizzata” .
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Il film arriva in un periodo in cui, grosso modo, Tim Burton era ancora Tim Burton. Ma il suo Pianeta delle Scimmie sembra più un’operazione "corporate" che frutto di un pensiero autoriale. Soprattutto se si considera che normalmente il regista, per inclinazione e passione espressionista, avrebbe potuto rendere questo mondo distopico un incubo ad occhi aperti intessuto di psicanalisi e freaks. Invece l'esito è solo una commedia, mista alla fantascienza, infarcita con l’azione, e imbellita da effetti speciali e costumi simpatici. Un frullato insomma, la cui atmosfera è più simile alla sitcom I Dinosauri che a un blockbuster dall’ispirazione sovversiva e politica.
Incredibilmente Tim Burton appiattisce tutto quello che può.
Sembra che abbia pensato tutto il film cercando di risolvere il problema del clamoroso colpo di scena finale, ormai ben noto al grande pubblico, e trovare un suo modo di stupire. Per quanto interessante però, il dibattito sul nuovo finale devia l’attenzione dal vero problema di Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie. Ovvero che è un film predicatorio, semplice e semplicistico.
Non aiuta la sua fama il fatto che sia arrivato in sala pochi giorni dopo l’11 settembre. In settimane in cui la politica, gli eventi della storia, si srotolavano in diretta televisiva di fronte agli occhi di tutti, lo sfortunato tempismo del film gli ha dato il colpo di grazia. Sia chiaro: non dal punto di vista del botteghino, dato che il film fu un grande successo, capace d recuperare tre volte il budget di produzione. La delusione fu tutta nell’occasione sprecata di riadattare, o meglio reimmaginare, temi politici ancora oggi attualissimi. In quei gironi (e per il decennio successivo) furono ancora più scottanti.
Certo, il 2001 non era il 1968, e si vede. Eppure l’intreccio tra umano e inumano e disumano avrebbe potuto trovare ancora un senso, se il film non possedesse una capacità critica degna di un tema svolto al quinto anno di scuola primaria. Ancora peggio: Il pianeta delle scimmie di Tim Burton ha la pessima voglia di farci scuotere la testa tra una scena d’azione e l’altra. Supplica lo spettatore di pensare a quanto l’uomo sia crudele e quanto il mondo animale vada rispettato. Perché, guarda un po’, quando veniamo trattati come gli ultimi allora capiamo il loro punto di vista!
Che brutto modo di buttare via un immaginario. Che pigrizia di pensiero stare solo alla superficie di tutto quello che si sarebbe potuto dire all’inizio del millennio. Tim Burton reimmagina una parabola. Un racconto morale che vuole insegnare, cambiare, convertire. Mai una volta provoca. Cerca di essere così per famiglie da dimenticarsi che anche le produzioni per tutti possono turbare, o lavorare su più livelli di comprensione.
Mark Wahlberg come alternativa a Charlton Heston non era già di per sé una grande idea. Infatti non riesce a reggere minimamente il seppur lieve peso drammatico, limitando la performance ad un’unica faccia stupita. Viene affiancato però da un cast di tutto rispetto che comprende Tim Roth, Helena Bonham Carter, Michael Clarke Duncan e Paul Giamatti totalmente sprecato. Siamo ancora lontani da L'alba del pianeta delle scimmie di Rupert Wyatt, dove le movenze e i gesti delle scimmie erano frutto di immedesimazione e studio. Tim Burton fa invece mimare agli attori, coperti dalle ottime maschere di Rick Baker, i salti e i versi dei primati. Forse è efficace per il divertimento dei bambini, ma l’adulto non può evitare di vedere un mucchio di superstar ricchissime che saltano a quattro zampe picchiando Mark Wahlberg. Risate assicurate. Di imbarazzo.
Il pianeta delle scimmie di Tim Burton possiede in sottotraccia una continua tensione sessuale, anche interspecie. Chiaramente mitigata dal PG-13, avrebbe invece potuto essere una delle leve di originalità del progetto. Per certi versi funziona l’idea, collegata anche alla visione di un pianeta ben più selvaggio e violento del nostro. Il sesso immaginato da Burton è animalesco, primordiale, ma anche nascosto come in qualsiasi film per famiglie.
Il punto è che Tim Burton non scompare dal film. È presente a sobbalzi, ma il coraggio e le idee della prima parte della sua carriera sono somministrate in dosi omeopatiche. Ad inquadrature come quella delle scimmie in primo piano con lo sfondo in prospettiva delle piante distrutte e acuminate, alterna sequenze piatte, riprese nella maniera più convenzionale possibile. Questa incertezza, come i sobbalzi di una macchina partita in seconda, castrano il film e lo gettano in una profonda crisi di identità.
A 20 anni di distanza dall’arrivo in sala di Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie l’unico lavoro di reimmaginazione è quello dello spettatore. Oggi infatti, avendo archiviato la delusione e l’imbarazzo, non ci resta che pensare a come sarebbe potuto essere il film se Tim Burton avesse potuto fare Tim Burton.
Forse era arrivato troppo presto, proprio all’inizio di una lunga fase di radicali cambiamenti geopolitici. O forse è arrivato troppo tardi: in un punto di svolta per il regista, la cui creatività stava perdendo le punte, conformandosi ai ben più luminosi e accondiscendenti prodotti di consumo.