The Witness, la mia gabbia dorata
Perché iniziare il tormento di un gioco come The Witness, che non risponde alle domande che stimola, essendo un gigantesco manifesto all’assenza
Costruita per testimoniare l’assenza, piena di disegni non finiti non si sa da chi, cibo mezzo masticato, imprese non terminate e costruzioni in via di completamento quell’isola si propone da subito come il senso ultimo del gioco. L’assenza umana è evidente nelle immagini tanto quanto l’assenza delle risposte fondamentali lo è nella forma. Gli enigmi che la popolano sono dei rompicapo che funzionano da pretesto narrativo, niente più che il necessario stimolo per mettere il “gioco” in “videogioco”, ma l’impressione è che davvero siano separati dall’ambiente, che siano successivi alla loro creazione, posticci e forzati. Non solo il loro stampo gelido e razionalistico cozza terribilmente con l’empatia che vuole stimolare lo scenario, con i suoi prati rosa, boschi arancioni, labirinti di piante e deserti assolati, ma la dinamica di gioco che prevede il procedere di schermo in schermo, sembra una forzatura all’ambiente. Saranno quei cavi esposti che collegano i vari monitor, così poco integrati nel resto dell’isola, così posticci e “successivi”…
Jonathan Blow ha dimostrato di amare il lavoro sulle convenzioni dei videogiochi, cambiare o negare ciò che tutti ritengono fondamentale e che nessuno, specie i giocatori, può immaginare sia messo in discussione. Vuole rivedere non il contenuto dei giochi ma il motivo per il quale li giochiamo.
Anche per questo, per le poche conferme che fornisce e il bisogno spasmodico di intuizione di cui necessita, The Witness è una sfida d’intelligenza condita di suggestione, vuole essere cibo per la mente a livello intellettuale ed intellettivo, cioè soddisfare le angosce dello stomaco (rappresentate dalle statue a forma umana, a metà tra abiti moderni e armi medievali, tra donne e animali) e tormentare le sinapsi con i suoi enigmi. Chi ha giocato a Braid sa che Blow riempie i suoi giochi di dipinti, frasi o oggetti inutili ai fini della trama o del gameplay ma fondamentali per la creazione di un ambiente e di un mood. I suoi giochi non vogliono solo avere una trama, vogliono stimolare delle sensazioni che mettano in questione ciò che diamo per assodato.
In Braid ogni pixel, musica o dipinto parlava di instabilità, di rivelazioni, di paure e incertezze. Nell’isola di The Witness tutto invece anela verso la libertà, le statue tendono le mani in cerca d’aiuto o provano a spiccare il volo bloccate dalla loro stessa roccia, si vessano o si liberano. In mezzo ci siamo noi, i prigionieri per eccellenza, intrappolati dalla dinamica di gioco, costretti a completare i difficilissimi rompicapo per arrivare a soddisfare quel desiderio instillatoci dal gioco stesso: scoprirne il mistero.
Nonostante i paesaggi tranquillizzanti ciò che destabilizza dell’isola di è come sia piena di vuoti e di mancanze. Non si ottengono risposte a niente, mai, nemmeno agli interrogativi più basilari. L’unica cosa che si ottiene sono ulteriori domande.
[caption id="attachment_151176" align="aligncenter" width="600"] Incredibile effetto prospettico che mette in relazione due statue lontane e di dimensioni molto diverse[/caption]
L’idea di Blow del resto è stata sempre molto chiara: creare un’esperienza esplorativa in cui il giocatore sia costretto ad ascoltare lo scenario per risolvere gli enigmi. Quelle due dimensioni così separate nel gioco si parlano. Le ombre completano i puzzle e suggeriscono le soluzioni, gli alberi simulano i percorsi che vediamo sui monitor, gli intarsi nelle pareti, se si ha la pazienza di guardarci attraverso la giusta prospettiva, svelano la soluzione. Tutto punta alla cima di una montagna, un luogo in cui le statue, che di rado si incontrano in basso, sono ammassate in scene tra l’ordinario e il folle, tra lo spaventato e il pietrificato. Summa massima della suggestione e delle domande senza risposta.