The Ruins, tra rampicanti e ultraviolenza è un triste caso di “film come non se ne fanno più”

The Ruins è la versione survival horror di un film di avventura e archeologia, con palate di sangue e dolore

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The Ruins è su Netflix

Uscito nel 2008 e presto dimenticato anche a causa di un risultato disastroso (e immeritato, diciamolo subito) al box office, The Ruins è un triste caso di “film come non se ne fanno più”, e come in generale non se ne sono poi fatti tanti almeno negli ultimi cinquant’anni: un survival horror ambientato dentro e intorno a un tempio Maya in rovina nel mezzo del Messico, con un mostro di origini soprannaturali ma mai davvero spiegate e un certo gusto sadico nel far soffrire il folto cast di intrappolati e intrappolate – un mix di turisti da tutto il mondo messi lì a ricordarci quanto gli americani (ma pure i tedeschi e i greci) siano irrispettosi quando escono dai loro patri confini per esplorare luoghi presunti esotici. Un film antirazzista, quindi? Magari non così tanto, ma sicuramente una gradevole macelleria.

The Ruins e Ben Stiller

Perdonate il titoletto furbo ma è uno dei dettagli più gustosi di questo film tratto dal bel romanzo omonimo di Scott Smith – lo stesso che scrisse Un piano semplice, da cui Sam Raimi trasse Soldi sporchi. Perché sì, per qualche motivo la produzione del film è della Red Hour, la compagnia fondata da Ben Stiller per finanziare Zoolander, e che poi ha prodotto anche i vari Dodgeball, Tropic Thunder e Starsky & Hutch. Come sia finita a produrre The Ruins è un mistero, ma a dire la verità non particolarmente affascinante. Lo è molto di più quello che succede nel film, per cui mettiamo definitivamente da parte Ben Stiller e passiamo oltre.

The Ruins è un film figlio di Hostel e dei suoi epigoni, Turistas su tutti, in una linea che idealmente prosegue fino ad arrivare a Green Inferno, e nella direzione opposta torna indietro, volendo, fino a Cannibal Holocaust e oltre. Cioè: esiste una lunga tradizione di storie di bianchi (turisti, colonizzatori, scienziati, archeologi…) che si perdono in luoghi nativi e fanno una brutta fine. È il contraltare dell’altrettanto classico “abbiamo sottratto un oggetto maledetto per portarlo in un museo a Boston e ora un antico demone sta massacrando la città”: un film sul lasciare le cose dove sono, e sul non mettere piede in posti ai quali è vietato l’accesso per un ottimo motivo. Quei film odiati dal ministero del turismo, insomma, e amati da chi lotta contro l’appropriazione culturale in tutte le sue forme.

Rampicanti e budella

Tutti questi bei ragionamenti intellettuali durano, di fatto, il tempo di portare i nostri cinque protagonisti fino alle rovine: li conosciamo nelle classiche situazioni da yankee in vacanza, tra feste in piscina, sbronze in spiaggia e piccanti flirt con affascinanti compagni di viaggio tedeschi. Li incontriamo alla fine di questa vacanza, quando viene proposta loro un’ultima avventura prima di tornare alla noia quotidiana: una gita a uno scavo Maya, talmente remoto da non essere segnato su nessuna mappa, e raggiungibile solo dopo una lunga passeggiata nella giungla, lontani da ogni rete cellulare. Ovviamente i ragazzi vivono in un mondo dove i film horror non esistono, e accettano.

È quando si arriva alle rovine che The Ruins si fa finalmente interessante e non solo rassicurante: perché invece di sbatterci subito in faccia un mostro, o al contrario di costruire un edificio di tensione costante da far esplodere solo negli ultimi minuti, il film punta sulla stranezza, sul mistero e sull’idea di sbatterti in faccia il pericolo fin dal primo istante contando sul fatto che mai tu, spettatore, lo identificheresti come tale. Perché il pericolo sono… delle piante. I rampicanti maledetti che coprono l’intero tempio. La cosa meno minacciosa del mondo, in teoria, perché statica; ma che riesce comunque a fare il suo sporco lavoro anche grazie alla presenza di un gruppo di nativi che conoscono la maledizione (quale che sia) e spingono quindi i nostri sventurati eroi a rifugiarsi proprio in cima alle rovine infestate.

The Ruins è un film di gente che non capisce cosa stia succedendo

Il risultato di questa doppia minaccia è un setting curioso per un survival horror: è un film di assedio al campo-base, ma lo stesso campo-base è invaso dall’entità più pericolosa della zona, senza che i nostri lo sappiano – almeno all’inizio. Da quando se ne rendono conto, The Ruins prende una strada meno weird e, per restare sugli anglicismi, più decisamente torture porn: i nostri cinque eroi (le due coppie americane e il fascinoso teutone) passano tutto il secondo atto a farsi male nei modi più orrendi, e il regista Carter Smith (noto per le sue foto di celebrità di Hollywood per Vogue e GQ e per le sue pubblicità per Tommy Hilfiger e Tiffany’s – vai a sapere) non ci risparmia nulla, ma anzi gode nel mostrarci i dettagli più disgustosi di questa infezione vegetale.

Succede così che il film ha una trama parecchio labile, una serie di situazioni sempre più tragiche che si susseguono con parecchia soluzione di continuità, interrotte qui e là da momenti di drama intergruppo dei quali francamente avremmo fatto a meno. Ma nonostante la sua quasi destrutturazione, The Ruins funziona perché lavora sull’impatto, sulla botta, sull’accumulo di situazioni sgradevoli in ambientazioni altrimenti affascinanti. È un film che non aggiunge letteralmente nulla al genere, forse, ma esegue con competenza e parecchi guizzi tutto quello che deve. A volte va bene così, ed è un peccato che ce ne siamo un po’ dimenticati.

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