The Predator è fin troppo Shane Black
The Predator segna il ritorno di Shane Black al franchise che lo lanciò, e il suo marchio di fabbrica si sente – fin troppo
Permetteteci, anzi permettetemi, di cominciare per una volta un pezzo in prima persona con un aneddoto che mi sembra ideale per parlare di The Predator. In occasione dell’uscita ebbi l’occasione di parlare (per telefono) con Shane Black, e bombardarlo per venti minuti di domande sul film, su com’era nata l’idea, sul perché uno come lui, che si concede con il contagocce, aveva accettato di tornare a lavorare con un ennesimo sequel/reboot/reinvenzione di un noto franchise. Quello che trovai dall’altra parte della cornetta era un uomo entusiasta al quale era stata concessa la possibilità di giocare finalmente con i suoi giocattoli preferiti, e insieme al suo amico del cuore. The Predator nasce da una collaborazione tra lui e Fred Dekker: circa trent’anni prima i due avevano cominciato la carriera fianco a fianco con Scuola di mostri, salvo poi non incontrarsi più, e il quarto film sullo (sugli) Yautja era l’occasione per un tuffo nel passato e una bella botta di nostalgia. E guardando The Predator questo approccio salta immediatamente all’occhio – nel bene ma purtroppo anche nel male.
È tutto talmente Shane Black, e talmente poco Fred Dekker, che The Predator è l’unico film del franchise nel quale le parti con gli Yautja sono probabilmente le peggiori, e quelle che non si vede l’ora che finiscano per tornare a passare del tempo con la squadra di protagonisti. In questo Black, i cui dialoghi e battute fulminanti erano già decisivi in Predator per definire i personaggi ed elevarli oltre il rango di carne da macello che invece in varia misura tocca a tutti gli altri protagonisti del franchise, azzecca tutto, e dimostra una volta di più perché è il miglior dialoghista in circolazione, e quello con le idee più brillanti.
Il già citato Key, Trevante Rhodes, Thomas Jane, Alfie Allen, Augusto Aguilera: ciascuno ha i propri traumi e i propri tic, ma nessuno è implicitamente cattivo, e la tendenza di Black a mettere in bocca a chiunque almeno una battuta divertente aiuta parecchio a renderli simpatici fin dalle prime scene; com’è bella l’idea di donare loro una casa sotto forma di pullmino scassato, che dura relativamente poco ma che crea un’atmosfera domestica con pochissime battute – qualcosa che nel franchise di Predator, solitamente ambientato in luoghi selvaggi e pericolosi, è sempre mancato. Aggiungete a tutto questo la presenza di Casey Brackett (Olivia Munn), biologa esperta di alieni che viene suo malgrado coinvolta nella caccia ai predator e si unisce quindi ai loonies, e otterrete che The Predator è, dei quattro film del franchise, quello che più di tutti è interessato a dare tridimensionalità a gente che rischia di finire affettata da un momento all’altro.
Come dicevamo all’inizio, è la grande forza del film ma anche il suo punto debole; perché Black & Dekker (…) sono talmente innamorati dei loro personaggi (e Black della sua scrittura) da perdere di vista il fatto che staremmo pur sempre parlando di un film su un alieno cacciatore. Non che manchino i predator in questo film che si chiama The Predator – anzi: ce ne sono in abbondanza, di diverse categorie, e questa volta arrivano addirittura accompagnati dai loro spaziocani. Il problema è che non sono (quasi) più Yautja, ma generici alieni invasori.
Iperviolenti, certo: se quello che cercate da The Predator sono sangue e budella ne troverete in abbondanza, e il film se la gioca con Predator 2 per la palma di più violento della saga. Ma ormai hanno pochissimo dei predator originali: agiscono alla luce del sole, si camuffano più per fare scena che per effettivamente nascondersi, il più grosso di loro è persino stato contagiato dall’umorismo shaneblackiano e improvvisa un paio di gag slapstick che sono più vicine a un Buster Keaton gore che a predator. C’è poi il problema che per giustificare questa ennesima caccia ai nostri danni, Black si inventa una trama inutilmente complessa, con un’infinità di parti in movimento di alcune delle quali avremmo anche potuto fare a meno (uno su tutti il “villain” Will Traeger/Sterling Brown), e che fa una serie di affermazioni e rivelazioni sui Predator in quanto specie che annacquano ulteriormente una mitologia già abbastanza incasinata di suo e non aggiungono nulla al suo fascino.
La versione breve di quanto scritto finora è che da qualche parte dentro The Predator c’è un gran film, il migliore dai tempi dell’originale del 1987, e che questa gemma sia sepolta sotto strati di manierismo e citazionismo a vari livelli. Tutta roba che esiste per troppo entusiasmo e non troppo poco, il che è già un ottimo risultato, che sarebbe potuto essere ancora migliore con un po’ di coraggio in più nei tagli.
Un’ultima considerazione: avrete notato che finora non abbiamo parlato dell’altro protagonista del film, Rory (Jacob Tremblay), figlio di Quinn, fan di Don’t Starve e vero e proprio MacGuffin del film. Ebbene, l’abbiamo appena fatto: c’è, ma anche se non ci fosse il film potrebbe reggersi comunque sulle sue gambe. Quantomeno Tremblay è molto bravo.