The Outer Worlds, perché riscoprire l'opera di Obsidian su Nintendo Switch | Speciale

In occasione del suo fresco approdo su Nintendo Switch, il cui lavoro di porting è stato affidato al team Virtuos, vogliamo omaggiare The Outer Worlds

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Potrà sembrare strano ai più, ma tra i titoli veramente interessanti dell’attuale generazione videoludica, vicina ormai al suo culmine, c’è The Outer Worlds. L’RPG targato Obsidian Entertainment, pur essendo lontano dai canonici tripla A per budget e resa, ha avuto il merito di ritagliarsi una sua nicchia all’interno dello spietato mercato videoludico. Ciò è stato possibile grazie alla sua capacità di fare propria una delle questioni principali del nostro mondo, ovvero il lavoro, e di sviscerarlo attraverso la caratteristica ironia del team di sviluppo. In occasione del suo fresco approdo su Nintendo Switch – il cui lavoro di porting è stato affidato al team Virtuos – vogliamo omaggiare la particolare originalità di The Outer Worlds.

Parlare di originalità in The Outer Worlds può nuovamente sembrare strano. Del resto, si tratta di una space opera videoludica ambientata in un lontano sistema solare - quello di Alcione - controllato da mega corporazioni. Il protagonista è un colono proveniente dalla Terra, che può operare o a favore delle aziende che gestiscono la forza lavoro e le risorse naturali, oppure attuare un crollo dall’interno per un ordine un po' più giusto del mondo. Un sistema dualistico già noto in molti RPG di matrice occidentali, come Fallout e affini. Nemmeno ludicamente The Outer Worlds innova il genere, ma si limita a mescolare armi a distanza e combattimento da mischia con le abilità dei compagni che prenderanno parte all’avventura.

Com’è possibile allora che The Outer Worlds sia un titolo originale, se non addirittura tra i più interessanti della current gen? La risposta è celata nell’universo di gioco. L’RPG di Obsidian prende il concetto di frontiera americana e lo fa suo. Per frontiera si intende la zona selvaggia che l’uomo bianco deve civilizzare. Su questo principio si è basata l’identità nazionale americana e successive declinazioni culturali, e ancora oggi il concetto di frontiera sembra essere molto diffuso all’interno della cultura pop, videogiochi inclusi. Basti pensare al viaggio compiuto da Sam Porter Bridges in Death Stranding, dall’Est all’Ovest degli Stati Uniti, per riunire l’umanità e quindi la civiltà. Così come il pellegrinaggio di Ellie e Joel di The Last of Us, partito da Boston, per poi passare dal Missouri, sino ad arrivare alla Seattle della Parte II. Si potrebbe continuare ancora, ma i due esempi citati sono sufficienti per far capire come il cammino tortuoso e violento verso la frontiera assuma una funzione catartica e riparatrice nell’immaginario collettivo: solo superando le barbarie scaturite dall'uomo stesso è possibile tornare alla vera umanità.

In The Outer Worlds però accade qualcosa di diverso. Innanzitutto, il concetto di frontiera da cui trae spunto è quella simbolica e mitica degli anni della conquista dello Spazio durante la Guerra Fredda. Il gioco lascia intatta persino la retorica gloriosa e solenne tipica del periodo, ma lo fa per esasperare la sua critica. Questo perché, in The Outer Worlds, la civilizzazione si svuota del valore purificatore prima menzionato, e mostra invece tutte le sue atrocità. Se nel passato reale queste prendevano la forma di segregazione dei Nativi Americani e di inquinamento della natura a favore del progresso, nel futuro di The Outer Worlds colpiscono in toto l’uomo e la sua umanità. Nel futuro del gioco l’unica cosa che conta è il lavoro, il guadagnarsi la pagnotta: è questo che rende l’uomo tale, e non la sua essenza. Una visione angosciante che però non sembra troppo distante dal mondo in cui viviamo.

È questa la terribile verità che emerge nei dialoghi taglienti del gioco. Di conseguenza, nel mondo di The Outer Worlds, ci ritroveremo più volte a ridere in maniera dolce amara, tra una sparatoria e una scelta morale. Per tutte queste ragioni l’irriverente RPG di Obsidian si merita attenzione e la possibilità di essere spolpato, specie da chi ritiene che il videogioco sia un potente mezzo attraverso cui la società possa esprimere le sue parole, i suoi timori, ma anche i suoi sogni.

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