The Others è un film fatto di negazioni e per questo è speciale
The Others usa il cliché dei bambini non creduti per sondare la psicologia di chi nega la loro verità e da lì costruisce la sua grandezza
Andiamo subito al punto: The Others ha il problema di arrivare dopo Il sesto senso. E non è un problema da poco. Perché il film di Shyamalan ha reso difficile parlare di spettri buoni con un colpo di scena alla fine. Nel suo twist finale perfetto, Il sesto senso è riuscito a chiudersi con un ribaltamento sorprendente che non cambia però quanto visto prima. Un bambino e un uomo che si aiutano a vicenda, due individui fermi, spaventati, in cerca di un posto nel mondo. Tolto il suo finale, resta ancora un film completo. The Others no, è più schiacciato nella sua chiusura che andremo a raccontare con brutale schiettezza a partire dalla prossima riga.
Smettere di negare è il finale di The Others
Grace Stewart e i suoi due bambini Anne e Nicholas lo negano alla medium che li ha contattati. “Noi non siamo morti!”. E invece lo sono. Da qui discende tutta la spiegazione delle insistite bizzarrie e delle apparenti incoerenze. Le emicranie della madre, interpretata da Nicole Kidman che qui si mangia un po’ il film, derivano dal colpo che si è sparata in testa. L’ha fatto dopo avere ucciso i suoi due figli mentre il marito impegnato al fronte nella seconda guerra mondiale era lontano da casa. Una Medea cristiana, in cerca di perdono e di consapevolezza.
Così i personaggi, in particolare i domestici che arrivano nella casa, si ritrovano ad anticipare il futuro nei dialoghi. “Prima o poi capirà!”; “Ci saranno grandi sorprese…” e così via. Se a una prima visione funziona, nella seconda il gioco al mistero appare di grana grossa. Più di quello che l’incantevole confezione estetica suggerisce.
Infine entra l’horror. Non spesso, solo in un paio di scene memorabili. L’ispirazione è Henry James e il Giro di vite su cui Amenábar piega le atmosfere. Non ci sono cattivi. Nessuno è animato da intenzioni malvagie. I contatti fisici sono al minimo. Nella casa infestata non ci sono aggressive presenze spiritiche, sono invece i vivi, impauriti, che vogliono contattare i morti. Qui arriva l’intuizione migliore del film: l’avvicinarsi con gli altri (i The Others del titolo) rifugge il senso di vendetta o di minaccia. Seduti a un tavolo, persone corporee e anime, si incontrano come davanti a un notaio per un rogito. La contesa è la casa, poter vivere lì in armonia. Non c’è desiderio di sangue, di rivalsa, di demoniaca dannazione. Vogliono semplicemente parlare.
Il ruolo dei cliché e dell'incredulità
Nel cinema fantasy e horror degli anni ’90 nessuno credeva ai bambini. Una soluzione che li isolava dagli adulti e alzava la posta in gioco e la percezione del rischio. The Others fa suo questo cliché. Nicole Kidman continua a dire di no. Nega tutto. Non crede ai suoi figli, si arrabbia con loro quando provano a spiegarle quello che hanno visto. Nega la luce, chiude le porte. È cieca.
Qui arriva la grandezza del film. Normalmente gli horror costruiscono la tensione sul non visto, sulle minacce invisibili che si muovono nell’ombra. Sul non sapere dove sia il mostro o come fare a sconfiggerlo. Amenábar costruisce con un linguaggio orrorifico solo le scene di svelamento. Più Grace capisce, più le sequenze sono costruite in un crescendo di tensione. Il culmine è la magistrale fusione tra piano terreno e soprannaturale. L’incontro tra la medium e la piccola Anne. Grace si avvicina alla bambina che gioca seduta a terra di spalle. Il suo volto è quello dell’anziana donna, la voce quella della figlia.
Nessun falso jump scare ci fa saltare sulla poltrona, sono semmai gli attimi di lucidità, gli urli in una casa in cui si sussurra per tutto il tempo, ad assolvere a questa funzione.
Quando i domestici, che si sono appena rivelati come non più vivi, si avvicinano ai bambini nella nebbia della notte, si rompe un altro cliché horror. Il mostro che si avvicina lento e inesorabile. I tre sono sullo sfondo fuori fuoco, camminano piano rassicurando Nicholas mentre la sorella gli spiega quello che ha scoperto. Questa volta però è lui a non credere al lei! Perché in fondo hanno ragione entrambi. Bertha Mills, Edmund Tuttle e Lydia sono morti, ma non vogliono fargli del male!
La religione è una prigione?
Alejandro Amenábar cura anche la sceneggiatura del film. Fa un lavoro strepitoso sulla religione. Sin dai titoli di testa sentiamo la voce narrante di Grace che accenna un racconto della buona notte sulla creazione. Intanto immagini illustrate del libro ci anticipano a grandi linee quelle che saranno le principali svolte della trama, anche se a quel punto non si sa ancora come decifrarle.
La preghiera e le sacre scritture, nelle mani di una madre fervente, si trasformano in una superstizione che imprigiona. Di fatto avrebbero ragione a pregare, a indagare ciò che li attende. Forse avrebbero capito tutto prima. Invece la religione è imbracciata da Grace come un’arma. Insieme alle tende che impediscono di guardare l’orizzonte, la colpa e il timore della dannazione sono, per questi già semi-dannati, una catena che li costringe in casa in un eterno qui ed ora.
The Others è così un film di presenze che riesce a cambiare il modo in cui in occidente si temono i fantasmi. In mano a un regista meno abile sarebbe stato un’ opera ricordata solo per il suo derivare da altro. Amenábar schiva lo ostacolo, e grazie alla sua pregevole fattura, crea un film capace di colpire da molte direzioni. Brividi e tenerezza sono le emozioni portanti. Entrambe equilibrate come raramente accade.
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