The Northman è un film che ci fa fare esperienza di vite non vissute

The Northman è un'esperienza sensoriale che ci chiede di ragionare come i vichinghi e di essere anche noi protagonisti della scena

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Non c’è nessuno che riesca a fondere realismo e magia come Robert Eggers. Persino in The Northman c’è quasi sempre una spiegazione razionale a tutto: allucinazioni, credenze che prendono il sopravvento e suggestionano anche i vichinghi più imperturbabili, droghe, fenomeni naturali maestosi e soprattutto sogni che rompono i confini e si spostano, svanendo, nello stato di veglia.

In The Witch fino all’ultimo istante si resta tesi tra la presenza di un’entità sovrannaturale\religiosa e l’ipotesi di un avvelenamento collettivo da ergot per via del cibo contaminato che ha scatenato stati di paranoia. The Lighthouse è più proteso verso le atmosfere lovecraftiane e ben più esplicito nell’inquadrare orrori inspiegabili. Ma alla fine qualcosa non torna. C’è l’errore della soggettività, della parzialità del narratore. Ci viene voglia di rivedere il tutto da un altro punto di vista esterno che forse può svelare un mistero in maniera ben più razionale. 

Una cosa del genere, e con risultati sorprendentemente buoni, abbiamo provato a farlo anche noi con Piccolo corpo. Un film ambientato in Veneto agli inizi del 1900, dove una madre che ha appena partorito una bimba morta viene costretta dalla superstizione a intraprendere un viaggio verso un monastero. Lì può trovare una magia che restituirà alla figlia un unico, ultimo, respiro. Non c’è però orrore. Il fantastico va qui ricercato, è raro e perso nei boschi, nei laghi e nelle valli sconfinate. Risiede solo in un piccolo spazio. Nel cinema di Eggers non è così: non è una presenza esterna. Risiede tutto nella mente e negli occhi dei personaggi.

The Northman: i miti non sono mai stati così plausibili

Per questo lui è il più grande esponente di questo cinema: schiacciato tra fiaba, tradizione popolare e ricostruzione storica. Riesce a essere sia muscolare che poetico. Costruisce immagini pulitissime nella composizione delle figure e nei colori, ma non ha paura di sporcare i propri personaggi. Le mani in The Northman raccontano tutto. Sporche, callose, piene di sangue, rompono la contemplazione di un’immagine armoniosa per colpirci nelle viscere. Il tempo scolpisce i corpi e questo si deve vedere ovunque. Nel sangue rattrappito sulla base di quando è stata aperta la ferita, nei muscoli tesi dei giovani o nelle rughe dei vecchi. Indizi visivi che vanno colti per capire la situazione e sopravvivere in terre selvagge. Il proposito poetico è proprio questo: far provare allo spettatore l’ebbrezza di vivere in un’epoca non sua. Lontano da casa. Dentro lo schermo. 

A differenza di tutti gli altri film in costume quelli di Eggers non si limitano a elencare usi e tradizioni, ma ci portano a pensare come pensano i personaggi, e quindi le persone che in quel contesto sono nate e cresciute. Perché con gli anni cambiano le culture, e con le culture cambia anche il modo in cui ci rapportiamo all’esistente, con cui interpretiamo e percepiamo quello che c’è intorno a noi. 

the northman anya taylor-joy

Bisogna leggere il film con la psicologia vichinga

La sequenza di iniziazione di Amleth, che si farà sicuramente discutere molto in pubblico, è greve (ci sono rutti e scoregge), è uno shock necessario. Gli orifizi dei corpi di padre figlio emettono aria. La sedia si fa scomoda in quel momento, perché avvertiamo un dialogo, una comunicazione viscerale che segna l’eredità ricevuta dal principe in dono dal suo Re. L’accettazione della parte animale dell’uomo, contro la “debole“ ragione. Vengono via gli strati di pelle, viviamo l’allucinazione di una società primitiva senza solennità né onore. Una decostruzione importante, quasi militante, di tante espressioni di cinema in cui nell’antico si trovavano valori moderni come nobiltà d’animo e lungimiranza.

The Northman è pieno di morti. Il decesso, lontano dall’essere temuto come fine dell’esistenza, è un passaggio ambito. È il come si muore a far paura. Bisogna perire da eroi, ascendere nel Valhalla per meriti. Abbandonare la vita terrena è insomma il momento più divino di un’intera esistenza mortale. Nulla di più lontano dal pensiero contemporaneo, in cui vivere è un’azione chiusa in se stessa.

Così Eggers, per permetterci di abbattere le inibizioni del nostro pensiero senza più credenze e avvallare così i valori che guidano Amleth, ci porta al centro della scena. La richiesta è esplicita: lo spettatore deve sopravvivere all’esperienza tanto quanto i personaggi. 

The Northman ci considera personaggi

Il punto di riferimento del suono surround è il sedile in cui assistiamo allo spettacolo. Nel frattempo le voci dei mistici oscillano da destra a sinistra senza una collocazione precisa nello spazio. Il subwoofer fa tremare la terra delle eruzioni vulcaniche. Non sono esperienze relative al solo personaggio e ma anche a noi, che siamo dentro di lui. 

Persino la natura è ripresa con occhi ben diversi dei nostri. Come se alla regia ci fosse un vichingo. La narrazione e la musica tolgono ogni aspetto documentaristico alle immagini di eruzioni o alla selvaggia terra islandese. Nel fuoco c’è la potenza, nelle nubi Dio. The Northman racconta la terra ancora più che gli uomini, ma non lo fa come elogio romantico di un poeta in estasi di fronte alla meraviglia. Semmai il cantore è un disperato in fin di vita. Per lui gli alberi sono un rifugio, i fiumi sono un mezzo di trasporto, il fuoco serve per uccidere e riscaldare. È una concretezza da cui non si sfugge. A tutto viene dato una funzione precisa, ancora prima che un nome. Perché se non ha una uno scopo pratico per esistere, allora è inutile. O, alla peggio, diventa un oggetto votivo.

The Northman è così un’esperienza pratica, tattile, concreta e così coinvolgente da diventare rifiutabile. Non è per forza un cinema che piace, piuttosto vuole scuotere. Far provare emozioni radicali e tirarci fuori un aspetto sopito della nostra natura umana che ancora non conosciamo. Quello di altre vite con cui crediamo di aver poco da spartire ma che ancora ci appartiene.

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