The Movie Critic non sarà su Pauline Kael, ma chi è la critica cara a Tarantino?

Chi è Pauline Kael, la critica su cui si è speculato molto in relazione a The Movie Critic (ma che pare non sarà il soggetto del film)?

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Le prime informazioni sul nuovo film di Quentin Tarantino dicono che si intitolerà The Movie Critic. Ma chi è il critico cinematografico a cui si riferisce il titolo? Si è pensato per qualche giorno che si potesse trattare di Pauline Kael, raccontata negli anni ’70, quando era all’apice della sua influenza. Tarantino però ha recentemente smentito il rumor durante un Q&A per la presentazione del suo nuovo libro, Cinema Speculation, al Grand Rex Theatre di Parigi. Conferma infatti che il film sarà ambientato nel 1977, anno chiave per il cinema americano. Non sarà però Pauline Kael il suo soggetto.

In attesa di saperne di più ripercorriamo la biografia della critica. È facile capire infatti perché, a fronte del titolo "The Movie Critic” si sia pensato subito a lei.

Perché Tarantino è legato a Pauline Kael?

Nonostante il rapporto talvolta stridente con la critica, Tarantino racconta spesso di Pauline Kael come una pensatrice che ha influenzato il suo modo di leggere i film e quindi il suo stesso cinema. In un’intervista a Positif disse “un giorno vorrei essere in grado di comprendere i film come lei”. Partecipò in prima persona al documentario What She Said: l'arte di Pauline Kael spiegando che per la prima volta, leggendo le sue righe, capì che la critica era qualcosa di più di parole e giudizi. Era a sua volta una forma d’arte.

Fu questo il più grande impatto da pioniera che ebbe Pauline Kael, classe 1919, sulla nascente critica cinematografica. Tra teoria accademica, verve polemica, giornalismo e guida per i lettori, la sua scrittura era estremamente personale e libera. Una specie in estinzione? Per Tarantino probabilmente sì. Lei è l’espressione di una critica che seppe essere vitale e impattante sulla cultura, la società e persino le vite dei singoli.

Chi era Pauline Kael?

Quando le veniva chiesto come fare per esercitare la professione di critico cinematografico, Pauline Kael si ritraeva. Il suo fu un percorso accidentato. Pieno di scossoni in cui lei però amava buttarsi a capofitto. Iniziò a scrivere a 30 anni e solo dopo i 40 riuscì a vivere del suo mestiere senza difficoltà economiche. Donna con un divorzio alle spalle e figlie da crescere, non barattò mai la sua integrità e la schiettezza per i favori del pubblico.

Al contrario, si dimostrò sempre un “problema” per i capo redattori. I suoi articoli arrivavano in un momento storico in cui la critica cinematografica aveva autorevolezza e poteva avere un impatto reale sulle produzioni e sugli artisti, influenzando la propensione del pubblico a vedere un film. Se la critica adottava un’opera, questa aveva concrete possibilità di ritagliarsi un posto nell’annata. 

Pauline Kael iniziò la sua carriera scrivendo storie e sceneggiature che non ebbero successo. La sua prosa trovò nella recensione la forma migliore per esprimersi. Esprimeva i suoi giudizi in prima persona. Era diretta e concreta, interessata più all’impatto che il film aveva sullo spettatore che alla forma. Viveva il cinema in mezzo al pubblico, i sospiri e le reazioni diventavano talvolta il soggetto dei suoi articoli. 

La critica tra applausi e contestazioni

La sua prima recensione fu di Tutti insieme appassionatamente. Lo definì “una bugia ricoperta di zucchero che le persone sembrano voler mangiare”. Non ebbe mai pietà dei film senza paura di attaccare anche quelli commerciali. Il direttore del San Francisco's City Lights la licenziò per questa sua schiettezza che le portò nel corso della carriera numerose contestazioni da parte dei lettori, comprese alcune minacce di morte.

Nel 1968 venne assunta dal The New Yorker dove rimase fino al 1991. Lì continuò a combattere per la propria autonomia. Diceva quello che pensava senza peli sulla lingua. Faceva impazzire il pubblico, che comprava il periodico per leggere lei, un nome ormai più in vista di molti film di cui scriveva. Divenne un'autorità assoluta, rendendo la critica una forma di intrattenimento e di espressione dell’arte letteraria. 

Il critico è solo, diceva, non deve pensare di avere alcuno scudo né nella redazione né nei lettori. L’unica protezione sono le sue argomentazioni. Chi ha paura non può fare questo mestiere.

Non intimidita dalle reazioni che le sue parole sapevano suscitare, Pauline Kael intimidiva a sua volta. Robert Altman la invitò in privato a vedere il montaggio provvisorio di Buffalo Bill e gli indiani. A cena, quando Altman le chiese un parere, fu sommerso di critiche dall'amica. Se ne andò rispondendo per le rime, arrabbiatissimo, lasciandole il conto da pagare.

Il circolo di Pauline Kael

David Lean venne invitato ad un pranzo dai critici di New York. Un’occasione informale a cui era presente anche Kael. Il regista racconta di essere stato travolto da attacchi durissimi al suo film. Una discussione che lo traumatizzò tanto da fargli mettere in discussione il suo mestiere. Si prese qualche mese di pausa a seguito dell'impatto con Kael.

Pauline Kael stroncava con durezza ma mantenendo sempre l'affetto verso il film. I suoi colpi di fulmine, le opere che amava, venivano invece sostenuti in ogni modo. La sua influenza permise a un vasto gruppo di giovani critici di emergere. Erano chiamati i “paulettes”, condividevano lo stile, la filosofia cinematografica, e spesso persino i suoi giudizi! Era solita infatti segnalare i film che desiderava sostenere, invitando caldamente i suoi protetti a parlare bene di un’opera. Tra di loro vi era anche il critico (poi sceneggiatore e regista) Paul Schrader, che entrò nell’industria anche grazie al sostegno di Kael. 

Tra i registi sostenuti con energia tale da influenzare la partenza delle loro carriere ci furono (tra i molti) Martin Scorsese, Brian De Palma, Steven Spielberg, Woody Allen

Penna simbolo della nuova Hollywood, propose un nuovo gusto difendendo tante opere popolari, altre volte addirittura bollate come trash dai colleghi, contro il cinema più autoriale e raffinato. La storia prima della forma. Il cinema è un’esperienza e questa è più importante del linguaggio. Una posizione contro l’estetica fine a se stessa molto contestata e in contrasto con le teorie dell’epoca. 

Alcune recensioni epocali

Fu merito suo se Gangster Story riuscì a sopravvivere alla sua "oscenità" che aveva sconvolto chi guardava e chi ne scriveva. La sua difesa argomentata diede nuova vita all’opera. “Il film americano più esaltante dai tempi di Va e uccidi”.

Andò contro corrente anche con Ultimo tango a Parigi, un film su cui era estremamente difficile esporsi. Lei lo fece con toni superlativi e volutamente esagerati: “Bertolucci e Brando hanno alterato il volto di ciò che è una forma d’arte” paragonando la premiere ad un evento epocale come la prima esecuzione de La sagra della primavera di Stravinsky. 

Il suo saggio Raising Kane (che ha ispirato Mank di David Fincher) aprì un dibattito su un film considerato intoccabile: Quarto Potere. Nello scritto suggeriva che Herman J. Mankiewicz fosse l’unico autore della sceneggiatura e che Orson Welles si fosse preso tutto il merito mettendo in dubbio il suo contributo effettivo al capolavoro. Un saggio che ferì profondamente Welles il quale prese in considerazione l’idea di farle causa. 

La parentesi come consulente

Nel 1979 Warren Beatty le propose di lavorare come consulente per la Paramount Pictures. Era in una crisi personale, dove non provava più piacere nella scrittura. Così accettò l’incarico. Dovette affiancare il produttore Don Simpson, ma le cose non funzionavano. I contrasti la portarono dopo pochi mesi a ritornare alla scrittura.

Continuò per un altro decennio. Con una diagnosi di Parkinson, Pauline Kael decise di ritirarsi nel 1991. Morì 10 anni dopo. La critica cinematografica è stata plasmata da lei, e insieme anche il cinema. Si è messa a disposizione del pubblico con un linguaggio semplice e accattivante. Ha raccontato la sua esperienza di spettatrice e a volte anche la sua quotidianità nelle recensioni per parlare del processo opposto: come i film dialogano con la vita vera e lì lasciano una traccia.

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