The Lost City, tra archeologia e gender swap

The Lost City è un nostalgico film d’avventura che prende molto da All’inseguimento della pietra verde ma ci aggiunge più di un twist moderno

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The Lost City è su Netflix

Il mondo del cinema è ciclico, e ci sono generi e sottogeneri che nascono, crescono, muoiono e poi, se tutto va bene, risorgono, magari per iniziativa solitaria di una persona nostalgica e potente, magari semplicemente perché il terreno è fertile per un loro ritorno. Non sempre questi tentativi di riportare in auge qualcosa di antico funzionano, e di solito vengono accompagnati da affermazioni tipo “sembra un film di quarant’anni fa” o “non se ne fanno più di film così” – quest’ultima seguita alternativamente da “purtroppo” o “per fortuna”, a seconda dei casi. The Lost City è un film di quarant’anni fa come non se ne fanno più, o meglio come ogni tanto si prova a farne solitamente coinvolgendo Dwayne Johnson. E la cosa migliore è che è uno di quei casi in cui la frase è seguita da “purtroppo”.

Non occorre una laurea in storia del cinema per realizzare molto presto che The Lost City ha come modello i film di avventura “di una volta” (che vanno da quelli su Allan Quatermain a quelli su Indiana Jones), e uno in particolare: All’inseguimento della pietra verde, che innestava una bella dose di commedia romantica su una struttura classica e trasformava la vicenda in un gigantesco e pericolosissimo flirt. Il film dei fratelli Nee vuole fare la stessa cosa, ma dandosi una bella passata postmoderna.

Innanzitutto c’è uno strato di meta-narrazione che avvolge questa storia di un tesoro perduto in un’isola sconosciuta in mezzo all’Atlantico, e del ricco miliardario che vuole recuperarlo perché ha dei daddy issues grossi così. La protagonista Loretta, infatti, è una scrittrice di romanzi d’avventura; meglio: di luridi romanzacci rosa pieni di sesso infiocchettato dentro metafore poetiche, che si svolgono sullo sfondo di avventure archeologiche alla ricerca di qualche antico vaso da portare in salvo. L’idea di prendere una creatrice e trasportarla di peso in una delle sue creazioni, all’interno della quale si dimostrerà inizialmente inadeguata per poi prendere fiducia nei propri mezzi e dimostrarsi all’altezza delle sue stesse fantasie, non è nuova; ma la scelta di seppellire ogni parvenza di serietà sotto uno strato di erotismo Harmony da quattro soldi è vincente, per il semplice ma efficace motivo che fa ridere. Loretta è la prima a non prendersi sul serio e a non prendere sul serio il suo lavoro: il fatto stesso che la città perduta del titolo sia nota solo come “D” (che in inglese, magari non lo sapete, è l’iniziale di “dick”, cioè il pene) è fonte di gag costanti, spesso di basso livello e proprio per questo esilaranti (se c’è una parte di voi che è ancora rimasta ai tredici anni – se siete adulti fatti e finiti magari storcerete il naso, e ci dispiace per voi).

Il fatto di trovarsi all’interno di quello che sembra un romanzo da quattro soldi, poi, non sfugge mai ai personaggi, né alla protagonista né alla sua spalla, della quale tra poco parleremo. Pur nel contesto di un film old school, hanno una consapevolezza e un autoironico distacco (soprattutto nel non rinunciare mai alla battuta a effetto anche quando le cose si fanno molto serie) che li caratterizza da subito come personaggi di un film degli anni Venti (questi anni Venti, non quelli ruggenti); vedetela così: non è difficile capire come mai la prima scelta per il ruolo di Alan fosse ricaduta al tempo su Ryan Reynolds. La differenza qui è che anche il distacco non diventa mai disprezzo, e quindi The Lost City non scade mai nella parodia. È un film esagerato, nel quale i personaggi riconoscono quanto buffe e improbabili siano le situazioni in cui si trovano (e quanto fuori posto siano loro), ma non le sottovalutano mai, non le guardano mai, metaforicamente parlando, dall’alto in basso.

Il vero segreto di The Lost City però sta altrove, e cioè nel modo in cui riesce a invertire le aspettative sui ruoli di genere senza sembrare forzato, ma anzi presentandoci il personaggio di Channing Tatum come una figura quasi tragica. È bello, la gente vuole vedere i suoi addominali, scopriamo anche (perché il film quando vuole sa essere greve) che la natura l’ha dotato di strumentazione di dimensioni ragguardevoli. Ma è tonto, è ignorante, ed è schiacciato sotto il peso della cultura di Loretta, e di conseguenza del suo cinismo. È un uomo che non si sente all’altezza della donna che ama, e questo nonostante gli addominali e il culo di marmo.

Il viaggio alla ricerca della corona di fuoco diventa così anche un viaggio di scoperta di sé e dell’altro – come avviene sempre nelle commedie romantiche, certo, ma questa volta le cose che Loretta e Alan scoprono l’uno dell’altra non sono le solite, lei non è la principessa da salvare, lui non è il principe su un cavallo bianco, e il suo aspetto migliore (e più moderno) è che non ha paura ad ammetterlo. Questo, e l’innegabile chimica tra Sandra Bullock e Channing Tatum, rendono The Lost City un film vivo, che può sempre appoggiarsi sulla sua leading couple quando il resto zoppica.

Perché ovviamente il resto qui e là zoppica, altrimenti staremmo parlando di un capolavoro. Daniel Radcliffe, ingaggiato come cattivo, viene presto dimenticato e sacrificato sull’altare della romance, salvo poi rispuntare al momento di dare un po’ di pepe al terzo atto; e più che un supervillain minaccioso è una figura tragica e un po’ patetica, ma senza veri momenti di riflessione né un parvenza di redenzione. È un cattivo senza un arco e con motivazioni poco interessanti, e sembra più che altro essere stato scritto perché servivano delle frizioni e degli ostacoli da superare. In generale, tutto quello che esiste al di fuori della bolla Tatum/Bullock è un po’ sfocato, tenuto sullo sfondo e usato all’occorrenza come deus ex machina, o come scusa per caratterizzare meglio i protagonisti.

Ma d’altra parte The Lost City è una commedia romantica più che un film di avventura, e da essa eredita tutto, limiti compresi. Ma in quanto commedia romantica fa la cosa più importante di tutte: funziona, grazie ai protagonisti, grazie a una scrittura brillante, grazie anche a una certa rozzezza che qui e là spinge il film in territori decisamente distanti da quelli che anche solo la locandina farebbe presagire. Se non vi preoccupa l’idea di ritrovarvi ridere a battute sul pene e sulla cacca, The Lost City potrebbe diventare un vostro piccolo culto.

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