The Legend of Zelda: Breath of the Wild, perché continuiamo a giocarci?

Ad un anno di distanza, continuiamo ancora a giocare a The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Ecco perché non riusciamo a staccarci dal pad

Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".


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La domanda è banale. La risposta, evitando inutili giri di parole, lo è altrettanto. Andiamo dritti al punto, quindi: perché, ad un anno di distanza dalla doppia release su Wii U e Nintendo Switch, continuiamo imperterriti a giocare a The Legend of Zelda: Breath of the Wild?

Perché non lo abbiamo ancora finito. Semplice e lineare, come vi avevamo promesso.

Bisogna naturalmente capire e (ri)definire cosa si intenda per completare un videogioco, perché mai come in questo caso vale la pena approfondire la questione, magari facendo qualche distinzione. Sia nel caso del nostro buon Fabio Canonico, che all’epoca lo recensì, ovviamente dopo aver raggiunto i titoli di coda, sia per quanto riguarda il sottoscritto, che vaga ormai da tempo immemore per le lande di Hyrule senza più una meta precisa, è difficile ritenere e reputare che l’essenza del gioco si limiti al semplice completamento di quest e sub-quest.

The Legend of Zelda: Breath of the Wild ha reso evidente ciò che titoli come The Elder Scrolls V: Skyrim e Far Cry 3, a confronto, hanno suggerito, timidamente, a bassa voce. Il concept del gioco, le sue intime fondamenta, sono svelate e declamate a lettere cubitali nel titolo, in quell' afflato di selvaggio che lascia presagire un qualcosa che effettivamente si palesa, che regala  concretamente un viaggio, anche un po’ interiore, nello sconosciuto, nel mistero, nell’inospitale, un viaggio destinato a perdurare, perché è proprio questa la grande scommessa, il più oscuro segreto che cela e insieme serba il gameplay della produzione Nintendo.

The Legend of Zelda Breath of the Wild screenshot

Ad ogni modo, non è la prima volta che un videogioco promette un’avventura in cui l’azione si mescola con il bisogno di provvedere continuamente alla sopravvivenza del proprio avatar. Solo per fare due esempi, Far Cry Primal, nel 2016, e Horizon Zero Dawn, un anno dopo, hanno battuto più o meno la stessa strada, finendo tuttavia per tradire parte dei presupposti sui quali si basavano.

Sia la produzione Ubisoft, che il capolavoro di Guerrilla Games, permettono alla sovrastruttura ruolistica, sul medio-lungo periodo, di prendere progressivamente il sopravvento, consentendo all’avatar di avere vita facile quando si tratta di sopravvivere, al di fuori delle missioni vere e proprie, attenuando progressivamente il brivido (d’eccitazione e paura) che si prova nel corso dell’esplorazione della mappa, quando si incappa in animali e creature robotiche malintenzionate.

The Legend of Zelda: Breath of the Wild, al contrario, sostiene, conferma e fortifica continuamente la sua coerenza interna, utilizzando diversi trucchi di gameplay, espedienti che, di fatto, rendono l’avventura appassionante, mai scontata, in una parola assuefacente.

"La sete di conoscenza, il bisogno fisiologico di scoprire cosa si celi un altopiano più in là, non è fine a sé stesso. È il gameplay stesso a implicarli, a renderli imprescindibili per la riuscita della missione"Il primo e più grande merito va, ovviamente, al level design.  La cura con cui sono stati sparpagliati, per tutta Hyrule, i vari punti d’interesse ha del geniale, per non dire demoniaco. Non si può raggiungere una location senza scorgere, in lontananza, un accampamento, un covo di nemici, un forziere, un anfratto misterioso. Non è unicamente una questione di quantità. Tesori da recuperare, affidandosi unicamente alle descrizioni, orali o scritte, dei luoghi in cui sono custoditi, costringono il videogiocatore ad osservare il panorama, ad assaporarlo ed analizzarlo palmo per palmo, operazione che presuppone un rapporto profondo con l’ambientazione, che incentiva un’esplorazione di Hyrule partecipata e sentita.

La sete di conoscenza, il bisogno fisiologico di scoprire cosa si celi un altopiano più in là, non è fine a sé stesso. È il gameplay stesso a implicarli, a renderli imprescindibili per la riuscita della missione. La criticata facilità con cui si usurano armi, scudi e archi è proprio il motore principale di questo meccanismo, il fattore che più di altri fa si che l’anima survival del gioco non si spenga mai completamente, né si affievolisca eccessivamente.

Il terrore di ritrovarsi disarmati nel momento meno indicato, l’avido desiderio di recuperare un’arma più efficace, sono tutte emozioni che fungono da catalizzatore per l’esplorazione. Non si tratta mai di farmare, tuttavia. The Legend of Zelda: Breath of the Wild, per quanto possa essere difficile in alcuni passaggi, non ha poco da spartire con Bloodborne e Dark Souls. Ogni azione è, in qualche modo, premiata. Nonostante manchino i punti esperienza, l’importanza di qualsiasi item raccolto e inserito nell’inventario, necessario ora per infoltire l’elenco di lame in proprio possesso, ora per cucinare manicaretti con cui recuperare vita, giustifica e ripaga di qualsiasi sforzo e anche dei game over in cui, inevitabilmente, di tanto in tanto si incappa.

C’è un altro fattore che concorre a rendere il titolo di Nintendo così assuefacente e godibile: la relativa raggiungibilità di ogni obiettivo, sia per quanto concerne l’abilità necessaria per rispettarne tutte le condizioni, sia, soprattutto, in termini geografici. Mai come in questo caso, la pratica rende perfetti, tanto più che i tanti gadget di cui dispone il prode Link permettono un alto grado di libertà d’azione. Laddove non riesce la spada, può aiutare l’ingegno. Dalla creazione di trappole, allo sfruttamento a proprio vantaggio delle asperità del terreno di scontro, una mente brillante può effettivamente dare vita a strategie efficaci in ogni condizione.

D’altro canto, avere la costante sensazione che tutto ciò che si osserva possa essere effettivamente raggiunto, inspessisce ulteriormente l’esperienza dal momento che vengono a crearsi, spesso e volentieri, puzzle ambientali in cui l’utente deve tracciare la strada meglio percorribile sino alla sua destinazione. Anche in questo caso, a fare da padrone è l’estrema libertà d’azione consegnata nelle mani dell’utente, limitata unicamente dalle ambizioni survival dell’opera. Avventurarsi sui pendii di un vulcano, senza alcuna protezione contro l’estremo calore, significa andare incontro alla morte. Non accorgersi che le armi in metallo attirano i fulmini, durante un temporale, si traduce in una sonora punizione.

The Legend of Zelda: Breath of the Wild non smette mai di stupire. Questo è il motivo principale per cui, anche dopo un anno dalla sua release, non riusciamo a staccarci dal pad. La ricchezza del level design è solo uno dei tanti motivi che hanno permesso alla produzione Nintendo di vendere milioni di copie e vincere premi e riconoscimenti in tutto il mondo. Più di ogni altra caratteristica del gameplay, a risaltare è l’inestinguibile declinazione survival che rende qualsiasi scorazzata per le lande di Hyrule un vero e proprio gesto eroico da non prendere mai sottogamba.

Senza raggiungere l’estremismo delle produzioni FromSoftware, comunque meritevoli di tutte le lodi del caso, l’ultima epopea del prode Link necessita attenzione e abilità, dimostrandosi tuttavia accondiscendente con il videogiocatore, elargendo di continuo premi e soddisfazioni.

Il castello della Principessa Zelda, in scacco della rediviva Calamità, troneggia in lontananza sull’orizzonte. Il mio Link non sa ancora quando e se mai sfiderà il nemico che minaccia la sopravvivenza del suo amato regno. Ed è forse anche questo, il ritenere The Legend of Zelda: Breath of the Wild un’avventura meravigliosa pur senza averla ancora completata, l’ennesima prova che ci troviamo di fronte ad un vero capolavoro, già destinato a fare storia.

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