The King's Man - Le origini è un tentativo riuscito di variare una formula rodata
The King's Man - Le origini è un film rischioso e importante per la saga, riuscito nella realizzazione ma non nella portata al botteghino.
I tre film della saga di Kingsman sono, contemporaneamente, la cosa più all’antica che la Hollywood dai grandi budget abbia fatto recentemente e la più moderna. Ha un sapore vintage, con quell’ingenuità colorata delle prime avventure di James Bond e il senso dell’avventura alla Indiana Jones. Matthew Vaughn, il regista di tutti e tre i film, ha però uno stile che va oltre il ritmo forsennato dei videoclip anni 2000. Totalmente senza freni, alla ricerca di soluzioni funamboliche, i suoi film sembrano venire dall'intrattenimento del 2030.
Gestire l'azione come dei veri signori
L’artificio c’è e si vede. Perché l’immedesimazione in questo caso va evitata il più possibile. Serve distacco, una de-drammatizzazione di quello che avviene all’interno che, per contrasto, è sempre estremo. Per intenderci: succede di tutto nel film, grandi tragedie e colpi di scena tripli carpiati. Non ci crediamo mai, ed è qui il divertimento. Quando si abbandona la pretesa che la cinepresa filmi qualcosa che per lo meno sia un mimo della realtà, ci si può godere il fantastico a cuor leggero.
In fondo i gentiluomini inglesi sono più vicini nelle loro azioni a un Charlie Chaplin supereroistico che a dei rigorosi soldati ben addestrati. Basta prendere il cinema di Christopher Nolan, dove tutti sono rigidi e preparatissimi. Corrono seguendo le migliori linee, si muovono nel giusto ritmo, guardano sempre nella direzione giusta. Matthew Vaughn è l’estremo più opposto. Il caos prevale sul controllo, l’imperfezione sulla coreografia. Quindi non importano gli effetti visivi credibili, non serve che la fisica segua le regole che ben conosciamo, spesso anche sulla nostra pelle.
The King's Man sperimenta nuove strade
Partendo da qui, da quello che non vuole essere, The King's Man - Le origini ha provato a variare la formula ormai ben consolidata in un prequel meno riuscito dei precedenti, ma con una grande ragione di esistere.
Siamo alle porte della Prima Guerra Mondiale e un gruppo segreto di potenti uomini guidati da un misterioso Pastore controllano le sorti del conflitto. In Inghilterra parte una resistenza pacifica, guidata da Orlando Oxford. Dopo avere perso la moglie ha votato la sua vita al mantenimento della pace e intende mantenere il controllo con a una fitta rete di spie. Grazie ai suoi due maggiordomi, in contatto con altri servitori in tutto il mondo, riesce ad avere orecchie ovunque.
Cambia il periodo storico, cambiano i personaggi, eppure resta riconoscibile l’essenza di The King's Man. A vederla realizzata sembra facilissima, ma in realtà l’idea di trasportare quell’estetica in un altro genere (quello bellico) era un rischio azzardatissimo. Effettivamente poi è andata così: ha avuto successo in termini di resa, senza incontrare il suo pubblico.
Perché la minaccia futuribile dei primi due film era un qualcosa di già visto molte volte in altri luoghi, solo che qui messa in scena con più stile. Questo misto tra il distopico, cyberpunk, storico revisionista a tratti fantasy, è assai meno esplorato.
Difficile non ammettere che, sorvolando sui molti difetti di ritmo e su uno stile meno ispirato, il risultato sia ancora una volta irresistibile. Sono divertentissimi i cattivoni tratteggiati con la china: loschi figuri senza volto e senza in ombra o monaci con poteri magici (Rasputin) che combattono come Keanu Reeves in Matrix.
Una guerra di complottisti
Spie e contro spie a cui mancano i gadget sorprendenti, ma resta geniale la battuta “questo è un paracadute” detta come se stesse mostrando un ritrovato iper tecnologico. Agli inizi del 1900 lo era.
Pur non prendendo nulla sul serio ha un inedito messaggio pacifista fortunatamente equilibrato. L’idea grandiosa è però altrove: quella di prendere il complottismo più becero, quello dei "potenti che giocano una partita a risiko con le persone vere" e ribaltarlo. Non ci sono solo i cattivissimi che vivono in luoghi assurdi in cielo. No, nel mondo di The King's Man tutti complottano. Ma proprio tutti! Dal presidente degli Stati Uniti ai gentiluomini inglesi fino ai più umili lavoratori.
Matthew Vaughn apre con questo prequel infinite possibilità alla saga. La fa uscire dal pantano in cui si era cacciata restringendo il proprio arco a un periodo di tempo brevissimo per pochi personaggi. Invece ha spostato il minimo comune denominatore verso quella che è la ragione per cui si paga il biglietto: l’azione.
Ecco quindi le soggettive delle spade, le inquadrature impossibili e soprattutto i combattimenti con il frame rate alterato, dove tutto sembra andare velocissimo per poi rallentarsi e ricominciare. La scena del massacro nella chiesa del primo capitolo racchiude in dosi omeopatiche tutto quello che saranno poi i tre film insieme. L’unica cosa a cui non si potrà mai rinunciare. Un po’ di sano massacro estetizzato e sperimentale.
È un qualcosa che viene tentato poco e che ancor meno riesce. Questo tentativo di esplorazione fuori dalla propria zona di comfort è un’operazione più importante di quanto sembri. Perché dimostra lungimiranza e grande cura per il lavoro fatto fino ad ora. È un peccato quindi che la risposta del pubblico non abbia sostenuto il film come avrebbe meritato. Sarebbe stato un bel segnale per l’industria di non insistere sempre sui cavalli vincenti per provare qualcosa di nuovo. Anche a costo di esagerare facendo il film più debole della saga, che è in fondo anche il più importante.
Trovate tutte le informazioni su The King's Man nella nostra scheda.