The Game, quando Fincher si mise a fare Kafka
The Game di David Fincher è un incubo alla Josef K, e uno dei migliori thriller mai fatti sulla paranoia e la perdita di controllo
Nicholas Van Orton non è stato calunniato, perché non viene arrestato un mattino; né si sveglia un dopo sogni inquieti trasformato in un grosso insetto. Eppure Nicholas Van Orton è un personaggio kafkiano quanto Josef K e Gregor Samsa, intrappolato in una situazione incomprensibile e sulla quale non ha alcun controllo, costretto a confrontarsi con persone che sembrano non parlare la sua stessa lingua pur usando le stesse parole, e che ignorano qualsiasi sua richiesta e insistono pervicacemente a recitare la parte che è stata loro assegnata. Nicholas Van Orton è il protagonista di The Game*, un thriller di David Fincher che David Fincher stesso a posteriori avrebbe preferito non fare e che addirittura nel 1992 venne rimandato a data da destinarsi nell’attesa che il suo regista completasse quella che era la sua vera priorità, cioè Seven, che non sarebbe arrivato prima di altri tre anni; e che nonostante tutto rimane una delle opere migliori di uno dei più grandi autori del mondo, e una delle più belle rappresentazioni cinematrografiche della paranoia e della perdita di controllo degli ultimi decennii.
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Il saggio che accompagna la versione Criterion del film, che trovate sul sito della Criterion, cita una valanga di riferimenti più o meno espliciti e più o meno esplicitati da Fincher stesso: Il canto di Natale di Dickens, innanzitutto, con Michael Douglas nel ruolo di Scrooge e Sean Penn, Deborah Kara Unger e il resto del cast nei panni dei fantasmi che lo costringono a ripensare alla sua vita, che è il primo modello a cui lo stesso autore fa sempre riferimento. Fincher cita Hitchock, cita Ai confini della realtà e La stangata, e soprattutto il saggio fa il nome di Josef K, che è secondo noi la vera chiave di volta per capire The Game insieme ad Alice nel Paese delle meraviglie, quest’ultimo citato nella scena più psichedelica e colorata del film grazie al sempre prezioso contributo di Grace Slick.
Nicholas Van Orton, che da qui in avanti chiameremo Nick per brevità, è esattamente il tipo di personaggio che avreste affidato anche voi a Michael Douglas nel 1997: un ricchissimo affarista con il cuore di pietra, un ego gigantesco e scarsa pazienza per qualsiasi cosa che non gli faccia incassare denaro in tempi brevi. È bello e solo, perché come abbiamo forse già accennato e come traspare da ogni singolo lineamento del volto di Michael Douglas ha un cuore di pietra, ed è il modello di persona che, in superficie, ha tutto. Lo stesso modello di persona che Fincher riprenderà, in versione meno ricca e più annoiata, in Fight Club, e che qui è fatto apposta per suscitare immediata antipatia in chi guarda: Nick è freddo e scostante con il fratello, maleducato con le cameriere al ristorante, sgradevole con le sue segretarie. C’è qualcosa di storto persino nel montaggio con cui si apre il film, una sequenza di foto e video di quando Nick era piccolo accompagnato da dolce musichina di piano: è etereo e poetico, ma è montato con la frenesia di una scena d’azione e tratta le immagini che si susseguono come tessere di un puzzle; a Fincher bastano dieci minuti, titoli di testa compresi, per farci capire che Nick è uno stronzo, e il film è qui per punirlo.
In questo c’è una differenza con i protagonisti kafkiani, che sono invece vittime ignare di circostanze inspiegabili; Nick invece viene condannato dalle prime immagini, e le circostanze che lo coinvolgono sono spiegabilissime: il fratello gli suggerisce di avvalersi dei servizi della misteriosa Consumer Recreation Services, una compagnia che si occupa di fornire alla clientela “esperienze che ti cambiano la vita”, e lui lo fa, a dimostrazione che la perfezione formale della sua esistenza da straricco è solo una patina. “Questi ricchi!” sembra esclamare Fincher mentre Michael Douglas ascolta con scetticismo e aria di superiorità quello che la CRS gli propone. “Sono talmente convinti di avere tutto sotto controllo che è facilissimo toglierglielo!”.
E in effetti il trucco kafkiano di The Game funziona esattamente così: sottraendo pezzo dopo pezzo il controllo della situazione a Nick. Che prima non riesce a ottenere informazioni su questo misterioso “gioco” nel quale CRS lo coinvolgerà se lui vuole; poi riceve la notizia che la sua richiesta di partecipazione non è stata accettata; dopodiché cominciano a succedere cose bizzarre, a partire dal pagliaccio di legno con una chiave in gola che viene abbandonato davanti a casa sua; e così, pezzo dopo pezzo, ma sempre con delicatezza, così che Nick non se ne accorga mai davvero, la sua vita viene smontata da quella che potrebbe o non potrebbe essere una misteriosa organizzazione criminale che organizza finti giochi per truffare, derubare e far sparire i propri bersagli.
La magia di The Game, almeno alla prima visione, e se ancora non l’avete visto smettete di leggere, sta tutta qui: nell’incubo kafkiano di una persona che sì, è sgradevole e tossica quanto Scrooge, ma si ritrova coinvolta in un’escalation di situazioni sempre più deliranti che lo avvicinano passo dopo passo a riuscire a ottenere l’empatia di chi guarda. Nel fatto che l’unica regola del gioco che ci viene comunicata è che c’è un gioco in corso, una regola apparentemente semplicissima che viene infranta immediatamente, e getta un ulteriore strato di dubbio su qualsiasi avvenimento: se l’hanno rifiutato, perché a Nick stanno succedendo cose abbastanza assurde da non poter essere solo coincidenze? Il rifiuto faceva parte del gioco? E se invece il rifiuto fosse vero, e quello che sta accadendo fosse opera di qualcun altro, qualcuno di seriamente a derubare e uccidere questo ricchissimo miliardario? E soprattutto, se fosse tutto nella sua testa?
The Game rompe qualsiasi patto narrativo con il suo pubblico; nulla di quello che ci viene mostrato è vero, tranne quello che lo è, ma come si fa a distinguere tra i due? Il film è disseminato di migliaia di dettagli chea cquistano un senso solo nel finale, o al contrario che sono piazzati lì come finte pistole di Cechov solo per sviare l’attenzione. È un film di attori e attrici che giocano a fare gli attori e attrici all’interno della finzione, una specie di torta a strati meta-narrativi che gronda angoscia, l’angoscia di non potersi fidare neanche più delle persone più care e dei gesti più semplici e quotidiani (tipo controllare il conto in Svizzera, se sei un ricchissimo investitore). Parla di uno spaventoso feedback loop alimentato a paranoia, contro il quale Nick – ed è il dettaglio più spaventoso – non può fare nulla, solo subire e sperare che passi, come Josef K, come Gregor Samsa.
Quantomeno non è un insetto gigante.
*hai appena perso, ci dispiace