The Game Awards 2020, riflessioni a mente fredda | Speciale
Lo show offerto dai The Game Awards è sembrata l’ennesima occasione mancata per fare il punto su un medium che sta cercando di darsi un tono
Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".
Il problema di fondo a cui si accennava poco sopra, del resto, è intimamente legato alla natura stessa dei Game Awards: si dovrebbe celebrare il videogioco, e i traguardi raggiunti nell’anno di competenza, ma si offre tanto spazio, fin troppo, a ciò che verrà, spostando, rimandando e annullando qualsiasi possibilità di dialogo, dibattito, analisi.
Del resto la cultura dell’hype è ormai un motore, il motore, che alimenta la maggior parte delle industrie legate all’intrattenimento. L’ossessione del preorder, causa di ondate d’ira da parte di fan delusi da prodotti presentati in un certo modo che all’atto pratico possono dimostrarsi ben diversi, ogni riferimento a Cyberpunk 2077 è tutt’altro che casuale, è una lama a doppio taglio potenzialmente mortale, spesso necessaria per consentire a molti team di proseguire fino al termine dei lavori, rischiosa se poi le attese vengono malamente disilluse per l’appunto.
Lo spazio ai trailer, alle scritte a cubitali “world premier”, sono insomma tutti elementi necessari, innegabilmente utili allo show stesso perché capaci di attirare un gran numero di curiosi e di spettatori, che non vedono l’ora di sapere a cosa potranno giocare da lì a qualche mese, o, più realisticamente parlando, qualche anno.
Sì perché in questo momento di transizione da una generazione di console all’altra, l’aggravante di questa esaltazione dell’hype si annida e si esplicita in una lunga serie di video che puntualmente omettono il gameplay, quasi a dimostrare che vale più il nome, la forza del brand, il mood al massimo, che il gioco stesso, il giocare di per sé. Del resto, da questo punto di vista, è già da tempo che si è affermata questa pratica, utile a celare il reale stato di lavorazione di una produzione e al tempo stesso affine alle assonanze con il mondo del cinema che molti tripla A ostentano, quasi fosse un marchio che da solo è in grado di assicurare e comprovare la bontà di un progetto.
Tuttavia resta irrisolta, al momento, l’altra faccia della questione. Perché se è vero che i Game Awards premiano i migliori videogiochi dell’anno, resta da capire perché non sia entrati nel merito di un titolo come The Last of Us Part II, che si è portato a casa diverse statuette e che, soprattutto, ha infiammato, nel bene e nel male, critica e pubblico nel corso dei mesi.
Certo, lo show è già per sé piuttosto lungo e appesantirlo ulteriormente con discussioni di un certo tipo renderebbe il tutto insostenibile. Eppure ridurre il tutto alle solite frasi fatte, di ringraziamenti e poco altro, sembra davvero riduttivo, tantopiù che stiamo parlando di un medium che deve essere ancora pienamente riconosciuto, che per la sua stessa natura interattiva non deve sprecare neanche un’occasione per spiegarsi, per fornire chiavi interpretative valide e stabilite a chi poi quei giochi li ha fruiti o li fruirà.
Nel 2020 insomma, a fronte delle tante critiche lanciate da più parti al gioco dell’anno, a quel capolavoro imperfetto che risponde al nome di The Last of Us Part II, i Game Awards hanno perso l’occasione di ergersi a reale momento di riflessione e per ricalcare i contorni e confini di un’industria, quella videoludica, che si sta evolvendo con estrema velocità.
Lo show di Geoff Keighley è un carrozzone spettacolare e appassionante, ma ci auguriamo che in futuro voglia anche proporre e sviluppare qualche contenuto di maggior impatto.