The Disaster Artist è deliziosamente immorale
The Disaster Artist è la storia di un uomo senza talento che aveva un sogno, ed è riuscito a realizzarlo vendendo giubbotti di pelle in Corea del Sud
Il dettaglio migliore di questa edificante vicenda è che sono tutte balle, e che The Disaster Artist (qui la nostra recensione) è in realtà una favola amorale, o ancora meglio immorale, che dimostra come nel mondo del cinema ci sia spazio per chiunque, indipendentemente dalle sue qualità – basta che abbia i soldi.
The Disaster Artist e The Room
Nel caso in cui non conosceste la storia di The Disaster Artist, eccovi un rapido riassunto. Tommy Wiseau è un tizio nato in un qualche Paese dell’est Europa ma che dice di essere di New Orleans, il cui sogno è sempre stato (o no) fare film – un sogno sabotato dalla sua totale assenza di talento, autoironia e autoconsapevolezza. Greg Sestero invece è un attore americano che all’inizio del millennio strinse amicizia con Wiseau e si trasferì con lui a Los Angeles per tentare la fortuna a Hollywood. Aiutati dall’enorme quantità di denaro a disposizione di Wiseau, la cui provenienza ancora oggi non è nota, i due misero in piedi la produzione di un film chiamato The Room e basato su un’opera teatrale, poi libro, infine sceneggiatura cinematografica scritta dallo stesso Wiseau.
The Disaster Artist e James Franco
L’idea di The Disaster Artist nasce perché James Franco e Seth Rogen amano da sempre (cioè, dal 2003) The Room in quanto fenomeno di culto ultra-trash da guardare con gli amici ridendo e mangiando patatine; e siccome parliamo di amici con i soldi, Rogen ha acquistato i diritti per trasformare il libro in film già nel 2014, e ha coinvolto nella produzione non solo Franco e il fratello Dave, ma anche la di lui moglie Alison Brie e una serie di altri volti nomi “del giro”. L’intento è chiaro: The Room è un culto, il suo autore lo è altrettanto, il passo successivo verso l’immortalità è un film che certifichi definitivamente lo status di entrambi; The Disaster Artist non è interessato alla verità né a rispondere alle domande più scomode sulla figura di Wiseau, ma a cristallizzare l’assurdità sua e della sua opera più famosa e a celebrarle tra una risata e un pop-corn.
Il film di James Franco, che oltre a interpretare Wiseau dirige anche, è così un’occasione per il suo regista di abbandonarsi all’overacting più scriteriato e di interpretare un personaggio che nella realtà dei fatti fu piuttosto sgradevole durante l’intera lavorazione del film e che qui invece non può non suscitare almeno un minimo di simpatia, ritratto com’è come un outsider che la gente tiene a distanza a botte di pregiudizi e che Hollywood non accetterà mai perché troppo fuori dagli schemi per un’industria così tradizionalista. È una rilettura un po’ glam di quello che, stando alle testimonianze dirette di chi c’era, è successo sul set di The Room durante i quattro mesi che sono serviti a girarlo, e molto romanzata; ma soprattutto restituisce di Tommy Wiseau un’immagine distorta e quasi poetica, da maledetto incompreso invece che da maledetto incompetente, che esiste più nella fantasia degli autori che nella realtà.
La morale dell’immorale
Il cuore del discorso è questo: Tommy Wiseau non è un indipendente di talento che è riuscito a superare tutti gli ostacoli e a immortalare la propria visione artistica in un film; e non è neanche uno squinternato un po’ scarso ma pieno di entusiasmo e di passione per il cinema, come poteva essere Ed Wood. Wiseau è, e questa interpretazione viene dalla visione del film e dalla lettura del libro, un tizio un po’ strano e con ogni probabilità molto solo che va in cerca di fama e riconoscimento e contatto umano e non si fa problemi ad attingere alle sue riserve auree per comprare quello che non riesce a ottenere grazie al suo carisma. Il cinema è solo l’ultima delle sue idee, in ordine cronologico: Wiseau nella vita ha provato a scrivere romanzi, spettacoli teatrali, e ha fatto una valanga di denaro con attività non meglio specificate (lui ha parlato solo di “vendita di giubbotti di pelle in Corea del Sud” citandola come una delle attività che l’hanno arricchito), e si è avvicinato al cinema non con la sincera passione di chi ama il racconto per immagini in movimento, ma con l’approccio utilitaristico di chi ha capito che i film possono essere una scorciatoia verso il successo e la fama.
La vera morale di The Disaster Artist, dunque, non è quella che i fratelli Franco (che idea curiosa quella di far interpretare due tizi che si sono appena conosciuti a due fratelli) ripetono a più riprese nel corso del film, e cioè che non importa il parere altrui, l’importante è seguire i propri sogni, e tutto è possibile per chi ci prova abbastanza a lungo e con sufficiente convinzione. No, la vera (im)morale è che tutto è possibile per chi ha abbastanza soldi da comprarsi tutte le attrezzature necessarie a girare un film invece di limitarsi a noleggiarle come si fa di solito, e anche che finché paghi e prometti fama e visibilità ti è permesso fare il matto sul set senza timore di ripercussioni (nel film, Wiseau licenzia due membri della crew; nella realtà licenziò due intere squadre).
L’artista del disastro
Il Tommy Wiseau di The Disaster Artist, e con ogni probabilità anche quello reale, non è un personaggio positivo, indipendentemente dall’angolo da cui lo si guarda. È sgradevole, egoriferito, con quell’approccio al cinema molto Uwe Boll che prevede di convincersi di essere meglio di tutti e di avere sempre al primo colpo l’idea giusta per ogni singola ripresa, senza poi il talento necessario per produrre qualcosa di anche solo decente. Wiseau è prepotente, prevaricatore, incapace di ascoltare davvero chi gli sta parlando; e The Room è un film brutto nel modo più prevedibile possibile: non il prodotto di un’idea bizzarra declinata in modo non adeguato (Troll 2), ma una collezione di banalità mal scritte e mal recitate.
Wiseau è uno che ha avuto l’idea di riprendere una delle battute più famose della breve carriera di James Dean e di inserirla a forza nel film, interpretandola con la stessa intensità del protagonista di Sogni d’amore: non è sovversivo, non è originale, non è un modo per prendere un pezzo di storia del cinema, reinterpretarlo e farlo proprio: è citazionismo 101, sciatteria, un’idea di cui ci ricordiamo solo perché chi poi la recita è scarsissimo a farlo. Scarsissimo come un miliardo di altri aspiranti attori scarsissimi, ma con i mezzi economici per bypassare ogni meritocrazia e costruirsi da zero un palcoscenico con tanto di occhio di bue e applausi teleguidati. Ecco: se volete un parallelo un po’ azzardato ma efficace, Tommy Wiseau sta al cinema come il figlio di Gheddafi, vi ricordate quello a cui Gaucci fece un contratto con il Perugia?, stava al calcio. The Disaster Artist ci presenta Tommy Wiseau come se fosse uno di noi, ma che in qualche modo ce l’ha fatta; la realtà è che è difficilissimo essere Tommy Wiseau (nel senso di “abbastanza ricchi e privi di vergogna da finanziare da zero un film orrendo per soddisfare il proprio ego”), e questo è solo un bene.