The Defenders: da Kingpin ad Alexandra, la costruzione di un villain

La Alexandra di The Defenders è l'ultimo di una serie di villain particolari, legati al loro ambiente, molto diversi dai cattivi Marvel del cinema

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Spoiler Alert
Una delle caratteristiche degli eroi del Marvel Netflix Universe è che essi vivono in simbiosi con l'ambiente che li circonda e con le tematiche di cui si fanno portatori. Ne sono l'espressione cangiante e più segreta, quasi la personificazione di un desiderio di rivalsa sociale contro le ingiustizie che infestano i vari e diversi quartieri di New York. Se ciò è vero, lo è anche in senso opposto. La costruzione dei villain funziona nei migliori casi per contrapposizione ideale a ciò che l'eroe rappresenta e quindi, se l'eroe è la personificazione di una ricerca di giustizia, il villain lo è della preservazione del male. In The Defenders, questo discorso viene portato ad un livello successivo.

Si tratta di un approccio ben esemplificato nella prima, e riuscitissima, stagione di Daredevil. Qui esiste un ordine nascosto e ben strutturato, un'organizzazione criminale che sta conducendo Hell's Kitchen ad un lento declino. Matt Murdock si batte contro ognuno di essi, fino allo scontro finale con Wilson Fisk, ma ciò che possiamo rilevare è che questo gruppo di malvagi preesiste alla nascita di Daredevil. È il quartiere a partorire il suo vigilante per combattere la minaccia, e Daredevil, cupo e lugubre, dà una maschera e un nome a quell'esigenza. Ma Hell's Kitchen è un'anima divisa tra il bianco e il nero (non a caso sono due colori che ben identificano Kingpin e Matt) e contiene una parte di malvagità. E questo lo si vedrà bene nella seconda stagione quando, nonostante la vittoria di Daredevil, il male continuerà a manifestarsi. Sarà in quel momento che la città partorirà The Punisher, quasi come risposta: se non può esserci redenzione, allora ci sarà punizione.

Questo per quanto riguarda l'ambiente, ma abbiamo parlato anche di tematiche. Daredevil è una serie sul caos e sulla ricerca disperata della salvezza, Jessica Jones è una vicenda di prevaricazione e dipendenza con un sottotesto femminista, Luke Cage ha le sue tensioni sociali. E tutto questo esiste di per sé come malessere sociale. Il fatto che poi venga vissuto dai singoli protagonisti ci aiuta a empatizzare di più con la minaccia, ma quella minaccia esisterebbe comunque al di là dell'esistenza di Kingpin, Kilgrave o Cottonmouth. Perché, ancora una volta, queste sono vicende noir, legate all'ambiente che le produce.

La scrittura dei cattivi ne è molto influenzata. Kingpin e Kilgrave sono diversi sotto molti punti di vista, ma sono anche vicini per altri. Entrambi hanno un'anima bambinesca e immatura, e non a caso entrambi soffrono un certo rapporto irrisolto con le figure genitoriali. Certo, quello di Kingpin ha delle sfumature più tragiche e violente, ma gli esiti non sono troppo diversi. Non è un caso che entrambi, il primo tramite Vanessa, il secondo tramite Jessica, riescano ad accarezzare una prospettiva di pace, serenità, ordine. Fisk non muta la propria indole, anche perché sarà Vanessa ad avvicinarsi al male, ma per Kilgrave possiamo quasi immaginare uno scenario alternativo in cui, con la giusta spinta e le giuste motivazioni, sarebbe potuto diventare una persona diversa.

Cottonmouth non ha una backstory altrettanto forte, e con Iron Fist il livello scenderà ulteriormente, ma la sua forza gli deriva comunque dall'essere espressione di quelle tematiche e sensazioni ambientali che dicevamo prima. La scena in chiesa, in cui Luke e Cornell Stokes si contrappongono a distanza, proponendosi in pratica entrambi come guardiani di Harlem, è la più emblematica della stagione. Se c'è un motivo, tra i tanti, per cui Iron Fist rimane un passo indietro, è anche per questa rappresentazione molto "personalistica" dei villain, che sono semplice espressione della storyline di Danny Rand, e non hanno la portata di quelli apparsi in precedenza.

Come si mantiene un approccio del genere nel momento in cui la minaccia diventa più grande? Come si può giocare con le tematiche e l'ambiente quando tutte queste si fondono, inevitabilmente dovendo rinunciare a qualcosa? Alexandra e i restanti membri della Mano giungono da lontano, nello spazio e ancor di più nel tempo. Nel momento in cui vengono trapiantati a New York mantengono tutte le loro caratteristiche, ma al tempo stesso intrecciano i loro piani criminosi con il tessuto urbano della città. Sarebbe eccessivo dire che ognuno di loro è riuscito a modo suo. Bakuto è un personaggio sbagliato sotto ogni punto di vista, mentre Madame Gao fonde bene entrambe le anime antica e moderna. Alexandra è più difficile da inquadrare.

Sigourney Weaver è quel tipo di attrice capace di donare forza ad ogni scena in cui è presente, in ogni personaggio che interpreta. Alexandra, similmente ad altri precedenti villain, ha una debolezza, ma è una debolezza del fisico e non dell'anima, qualcosa che la spinge ad accelerare – forse sbagliando – i propri piani. Le tematiche inevitabilmente fanno un passo indietro per garantire una percezione più ampia della minaccia. Ha senso: più la lente si avvicina, più possiamo vedere le specificità di quartieri, strade, vicoli bui. Se ad essere minacciata è la città intera, il discorso è più difficile.

Infine, la morte a sorpresa di Alexandra riprende idealmente quella di Cottonmouth. Le differenze risiedono allora in una maggiore fluidità della narrazione, che apre subito alla chiusura dello show con gli ultimi due episodi in cui è Elektra il nemico.

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