The Day After Tomorrow, quando Roland Emmerich ci mise in guardia
The Day After Tomorrow di Roland Emmerich è stato il primo blockbuster di Hollywood a parlare di riscaldamento globale, ma noi non l’abbiamo ascoltato
Oggi il volto della lotta al cambiamento climatico è quello di Greta Thunberg, ma 17 anni fa, quando di ambiente a Hollywood parlava praticamente solo Leonardo DiCaprio, uscì un film diretto da un signore tedesco con la passione per distruggere il mondo, e che anticipava di parecchi anni (o ancora meglio, inaugurava) l’ingresso nel mainstream di certi discorsi. Il film in questione, che è ovviamente The Day After Tomorrow, fu salutato dalla comunità climatologica con un certo scetticismo per via del fatto che si prendeva alcune libertà eccessive dal punto di vista scientifico; eppure a ripensarci quasi vent’anni dopo il sospetto che avesse ragione Emmerich è fortissimo.
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The Day After Tomorrow e Roland Emmerich, distruttore di mondi
La carriera di Roland Emmerich comincia alla fine degli anni Settanta, ma il regista tedesco comincia a sfasciare con regolarità il mondo solo dal 1996, con Independence Day, la sua dichiarazione d’intenti e manifesto artistico del catastrofismo emmerichiano che negli anni successivi ci regalerà Godzilla, The Day After Tomorrow, 2012, un sequel di Independence Day e, tra poco, anche Moonfall. Il cinema di Emmerich nasce e cresce con l’esplosione di una CGI finalmente plausibile a tutte le dimensioni, dal micro al macro; e se ID mischiava ancora il digitale con effetti pratici, e Godzilla puntava sul trucchetto della pioggia costante per coprire qualche imperfezione, The Day After Tomorrow è finalmente l’occasione per mettere in scena la distruzione del mondo e della civiltà umana con inquadrature chiare, spettacolari e spesso luminosissime.
The Day After Tomorrow e la tempesta del secolo
The Day After Tomorrow, però, è speciale anche in una filmografia popolata di astronavi aliene e lucertole mutanti giganti. È basato su un libro, che non è un prevedibile romanzo ma un saggio speculativo (spezzato qui e là da momenti di fiction) scritto dal conduttore radiofonico Art Bell insieme allo scrittore ed esperto di paranormale Whitley Strieber; non è il massimo del curriculum per un libro che dovrebbe avere contenuti scientifici, e in effetti The Coming Global Superstorm non è un’opera rigorosa e documentata, ma piuttosto un gigantesco “what if”, un esercizio ai confini con la filosofia, che immagina un futuro nel quale i cambiamenti climatici dovuti al riscaldamento globale non siano graduali e spalmati su decine o centinaia di anni, ma improvvisi e catastrofici.
È inutile entrare nel dettaglio (anche perché in questo il film è piuttosto fedele alla fonte), ma l’idea dietro The Coming Global Superstorm è che l’aumento delle temperature globali possa avere un effetto inaspettato e controintuitivo; per farla breve, comunque, la teoria va circa così: secondo Bell e Strieber, qualche grado in più potrebbe bastare per modificare le correnti oceaniche e portare una massa d’acqua calda verso il Polo Nord, che a sua volta spingerebbe l’aria fredda polare verso il resto dell’emisfero settentrionale, causando un crollo delle temperature, eventi atmosferici estremi e l’inizio di una nuova era glaciale. Bell e Strieber si lasciano poi trasportare dalla fantasia per ipotizzare non solo che eventi del genere siano già successi in passato, ma che abbiano spazzato via intere civiltà delle quali oggi non sospettiamo neanche l’esistenza.
Il fascino della distruzione
L’idea di The Coming Global Superstorm non è particolarmente credibile, ma ha un fascino fortissimo. Uno dei grossi problemi comunicativi riguardo alla crisi climatica in corso, come già vi raccontavamo qui parlando di Tomorrowland, è che si tratta di una catastrofe al rallentatore, della quale è difficile far capire l’urgenza visto che le sue conseguenze più gravi sono proiettate verso i decenni se non i secoli a venire. The Day After Tomorrow è una versione accelerata di tutta una serie di discorsi che colpiscono chi ha voglia di starli ad ascoltare e suscitano indifferenza nel reesto del mondo: invece di raccontare il lento collasso della società, le migrazioni climatiche che scombineranno gli equilibri geopolitici, le città costiere che anno dopo anno si ritrovano qualche millimetro più in basso, prende un evento estremo (ed estremamente improbabile) e soprattutto rapido.
Bastano poche ore perché la supertempesta scoperta dal paleoclimatologo Jack (Dennis Quaid) e dal suo collega inglese Terry (Ian Holm) faccia danni irreparabili in tutto l’emisfero settentrionale, e questo permette a Emmerich di mettere in scena sequenze di sicuro impatto, ma anche di infilarci neanche troppo di nascosto una serie di messaggi chiarissimi su come stiamo (o stavamo, diciassette anni fa) gestendo la situazione. Come gran parte della filmografia di Roland Emmerich, The Day After Tomorrow non è un film particolarmente sottile: Dennis Quaid interpreta l’inevitabile scienziato-Cassandra, che si scontra contro la burocrazia e la politica e un vice-presidente che all’affermazione “il nostro clima è troppo fragile!” risponde con una frase che fa tanto 2020, “la nostra economia è fragile quanto il clima”; e passa il primo atto del film a ripetere ossessivamente che l’attività umana ha causato tutto questo e che una volta passata l’emergenza bisognerà ripensare l’intero sistema produttivo mondiale.
E come dicevamo all’inizio, è giusto così: se c’è una cosa che abbiamo imparato dal 2004 è che girare intorno alle questioni, addolcirle, usare periodi ipotetici e un pizzico di ottimismo, non serve assolutamente a nulla, perché è un approccio che dà l’impressione che ci sia ancora tempo per sistemare tutto. The Day After Tomorow, invece, tra uno sfacelo e l’altro, ripete in continuazione che tempo non ne abbiamo, un’idea che Emmerich continua a ribadire da allora – appena due anni fa in un’intervista se la prendeva con Hollywood perché non ne parla abbastanza: “Sarebbe così facile” diceva “inventarsi, per esempio in un film Marvel, una situazione che è una chiara metafora per la crisi climatica; però non lo fa nessuno”. Lui lo faceva già nel 2004, e faceva bene, a giudicare da come siamo messi oggi.