The Conjuring – Per ordine del diavolo è tutto cervello e niente muscoli

The Conjuring – Per ordine del diavolo si regge su un’idea intellettualmente stimolante, ma si dimentica di fare paura

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The Conjuring – Per ordine del diavolo è il terzo capitolo della saga omonima e l’ottavo in generale del franchise nato dal film del 2013 – il Conjuringverse, forse? E per essere, lo ripetiamo, l’ottavo capitolo di un franchise si regge su un’idea sorprendente e intellettualmente stimolante, un modo un po’ diverso di raccontare l’ennesima storia di possessioni demoniache che lo allontana (o potrebbe allontanarlo) dai territori più classici per spostarlo in quelli, meno esplorati nel genere, del legal thriller. Purtroppo, nell’imbastire questa operazione di grande intelligenza, il film si dimentica quella che forse è la cosa più importante: fare paura.

D’accordo, avere paura è una questione molto soggettiva, e quello che spaventa me potrebbe lasciare te completamente indifferente. Miglioriamo allora la frase di prima: The Conjuring – Per ordine del diavolo si dimentica di fare paura in modi interessanti, e non funziona per pura consunzione del suo pubblico, che dopo (l’abbiamo già detto?) otto capitoli ha ormai imparato decodificare il linguaggio della saga, i modi e i tempi con cui vengono distribuiti ed eseguiti (e spesso telefonati) i jump scare.

Un grosso problema di questo ottavo capitolo è che quella che all’inizio era la grande forza della saga sta cominciando a diventare il suo più grande punto debole, che giustifica tra l’altro l’esistenza di un numero di spin-off superiori a quanti sono i capitoli principali. I protagonisti di Conjuring sono i coniugi Warren, e il franchise è strutturato quasi come un lungo telefilm, nel quale a ogni episodio i nostri eroi risolvono un nuovo caso – finora la cadenza in universe è quella di un esorcismo ogni cinque anni, con il primo Conjuring ambientato nel 1971 e questo Per ordine del diavolo nel 1981. Questo da un lato consente una costruzione orizzontale e quasi rilassata dei personaggi principali, e quindi l’affezione da parte del pubblico: molte saghe horror sono basate sul mostro più che su chi lo sconfigge, mentre nel caso di Conjuring ogni nuovo film è l’occasione per passare un paio d’ore con due personaggi che conosciamo bene.

Dall’altro questo significa che, film dopo film, diventa più difficile credere fino in fondo alle minacce affrontate da Ed e Lorraine, banalmente perché sappiamo che comunque sopravviveranno fino ai titoli di coda. Certo, arriverà il capitolo finale nel quale uno o entrambi i protagonisti ci lasceranno le penne, ma siamo nel 2023: quando succederà lo sapremo con largo anticipo. Per ora sappiamo che alla fine di ogni nuovo capitolo della saga il bene trionferà, e The Conjuring – Per ordine del diavolo non fa troppa differenza. Intelligentemente, però, prova ad aggirare il problema, presentando un caso (come sempre ispirato a una storia vera) nel quale la possessione demoniaca non è in corso, ma è già avvenuta.

La storia di Arne Cheyenne Johnson fece scalpore nel 1981 perché fu il primo processo nella storia americana in cui la difesa chiese (… ah ah ah) l’assoluzione dell’imputato (che aveva ucciso un uomo) “perché vostro onore era posseduto dal demonio”. Nella realtà Johnson venne ovviamente condannato, ma in The Conjuring – Per ordine del diavolo, con una mossa moralmente discutibile, sappiamo fin da subito che l’omicidio è avvenuto davvero perché il povero Arne era posseduto. Lo sanno i Warren, lo sa la sua famiglia, ma è impossibile spiegarlo a un giudice: ecco che il film diventa un legal nel quale i nostri due indagatori dell’incubo devono dimostrare di fronte a una corte l’esistenza del demonio e la sua capacità di influenzare il comportamento umano.

O meglio, potrebbe diventarlo: forse spaventato all’idea di stare troppo tempo senza jump scare, Michael Chaves (lanciato da James Wan con La Llorona e poi voluto al timone di questo capitolo numero otto) si mette alla frenetica ricerca di un’altra possibile soluzione, che lo tenga lontano dalle aule di tribunale e lo riporti dove si trova meglio – nel bosco, in una casa infestata, dovunque si possano far comparire facce spaventose dal nulla, accompagnate da rumori dissonanti. Non bisognerebbe mai criticare un film per quello che non è, ma è difficile guardare The Conjuring – Per ordine del diavolo e non pensare che da qualche parte nel multiverso ne esiste una versione che sviluppa certi spunti e si lascia alle spalle per una volta il solito luna park degli spaventi.

È come se le due anime del film non si parlassero, e una, quella più mainstream, alzasse costantemente la voce per imporsi, fino a mettere del tutto a tacere, nel terzo banalissimo atto, ogni spunto interessante. Ed è strano anche solo pensare una frase tipo “questo film funzionerebbe meglio se spendesse più tempo in tribunale”. Ma non è molto più interessante discutere delle implicazioni di una difesa come “me l’ha detto il diavolo?” che inseguire l’ennesimo spettro inquietante e vendicativo? (che peraltro si manifesta anche bene in un paio di momenti, in particolare all’inizio quando è ancora ospite di un bambino) Neanche l’apparente colpo di scena iniziale fa granché per smuovere le acque, anche perché viene risolto frettolosamente – come quasi tutto in questo film.

A conti fatti e alla fine dell’ennesimo esorcismo, The Conjuring – Per ordine del diavolo è un’occasione sprecata per staccarsi in maniera originale dagli standard della saga, e perde ogni possibile confronto con i due predecessori (in particolare il primo, ancora irraggiungibile capitolo). Ci consola pensare che da qualche parte nel nostro pezzo di multiverso esiste la versione che vogliamo di questo film: si chiama Johnny Frank Garrett’s Last Words e ve lo consigliamo di cuore.

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