The Bourne Identity è una piacevole reliquia
The Bourne Identity era un thriller high tech quando uscì, quasi vent’anni fa: rivederlo oggi è un’esperienza
Quando uscì nel 2002, all’alba di questo millennio quindi, The Bourne Identity (guarda il trailer) venne salutato come un thriller stiloso e appassionante, per quanto un po’ vuoto, e anche come un’interessante riflessione/previsione sulla società del controllo, sulla videosorveglianza costante e sulla quantità di informazioni che il governo possiede su di noi o può recuperare in un tempo relativamente breve.
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The Bourne Identity e Tony Scott
Tratto da un romanzo del 1980 di Robert Ludlum, adeguatamente riadattato al 2002 da Tony Gilroy e William Blake Herron, The Bourne Identity è un thriller un po’ complottista e profondamente americano, che uscì in un periodo nel quale il genere si era sempre più spostato verso il soprannaturale; a rappresentare la vecchia scuola era rimasto praticamente solo Tony Scott, che per Spy Game (uscito un anno prima) aveva anche scippato il protagonista proprio a Liman, che voleva puntare su Brad Pitt e si dovette accontentare di Matt Damon dopo aver ricevuto il “no” anche di Sylvester Stallone, Arnold Schwarzenegger, Russell Crowe e Tom Cruise.
Proprio la scelta dell’ex Will Hunting, con quella sua faccia da ragazzone americano un po’ tonto, si rivelò fin da subito uno dei segreti del successo di The Bourne Identity: Damon fin lì aveva avuto sì esperienza con qualche forma di thriller-e-dintorni (Il talento di Mr. Ripley, Ocean’s Eleven), ma nessuna con l’azione pura – come d’altra parte non ce l’aveva mai avuta Liman, che arrivava da Swingers e Go – Una notte da dimenticare. L’incontro tra due novellini completi, sulla carta due scelta improbabili, ma entrambi estremamente appassionati del materiale di partenza (l’idea di trasformare il romanzo di Ludlum in film fu proprio di Liman), generò una qualche strana scintilla creativa dalla quale è nato il personaggio di Jason Bourne, la versione black ops di John McClane, grazie al quale l’intero franchise sta in piedi anche quando non funziona davvero.
The Bourne Identity e Matt Damon
Non c’è dubbio che la saga di Bourne coincida con Matt Damon, con quella sua aria spaesata da “chi sono? Cosa ci faccio qui? Perché conosco le arti marziali? Perché ho la faccia di Matt Damon e le spalle di un culturista?” e un sorprendente carisma quando si tratta di fare il duro sul serio. The Bourne Identity in questo senso è ancora l’esemplare migliore, prima che il franchise si perdesse un po’ dietro le sue trame intricatissime e si dimenticasse di farci passare un po’ di tempo di qualità con Matt Damon.
Funziona meno bene, diciotto anni dopo, il suo rapporto con Marie, il personaggio di Franka Potente, chiaramente scritta per riempire il buco a forma di interesse romantico e perfettamente inutile ai fini della trama se non per aggiungere un po’ di minutaggio (il film dura due ore e se ne durasse una e mezza sarebbe il miglior thriller del decennio o giù di lì): è un chiaro retaggio di quando era ancora impossibile fare a meno di una storia d’amore e di una imbarazzantissima scena di sesso in un film americano con un eroe action, e appesantisce un po’ quella che già da sola è una storia non semplice da seguire.
“That’s what the CIA said”
A proposito di cose non semplici da seguire, e qui arriviamo al discorso da cui siamo partiti: oltre a essere la origin story di Jason Bourne e una stiracchiatissima storia d’amore, The Bourne Identity è anche la storia di come ci vogliano i superpoteri per poter sfuggire al governo che vuole farti fuori. L’intero edificio del film è costruito al contrario rispetto ai principi cardine di un thriller: qui il cattivo da far fuori è il protagonista, che non sa di essere cattivo e la cui esistenza viene trattata con lo stesso mix di rispetto e timore che si riserva solitamente a un Predator. Per trovare e neutralizzare Bourne, la CIA deve mettere in campo tutte le sue risorse e tutta la sua tecnologia; ed è proprio qui che The Bourne Identity dimostra inevitabilmente la sua età.
La parte di film che non riguarda Bourne segue tutti i tentativi della CIA di rintracciarlo, utilizzando foto satellitari (“questa è di appena 18 minuti fa!”), registri telefonici di linee fisse, agenti sul campo e immagini sgranate prese da telecamera di sorveglianza con un limitatissimo angolo di visione. L’idea che si possa scomparire dalla ragnatela di sorveglianza istituzionale se si hanno le capacità è così ingenua da far sorridere. Un piccolo esempio: la prima volta che Bourne entra in contatto con qualcuno che lo sta cercando, passano almeno venti minuti prima che l’informazione faccia tutti i giri richiesti e diventi ordine di agire; in un film di oggi una scena del genere verrebbe rifiutata, perché le telecamere di sorveglianza della banca sarebbero in streaming costante con il quartier generale di turno.
www mi piace Bourne
L’assenza degli smartphone è un altro dettaglio che permette di datare The Bourne Identity con il carbonio 14: nel 2002 era normale, ma provate a immaginare un film di spie e inseguimenti ambientato nel 2020 e privo di telefonini (o anche solo nel quale un telefonino non diventa prima o poi un plot point essenziale). Più in generale, nel film di Liman Internet è quasi completamente assente, nonostante nel 2002 fosse già ben presente nelle vite di parecchia gente.
Non sappiamo se questi dettagli high tech ci colpiscano perché sono una testimonianza di quanto la tecnologia abbia corso negli ultimi vent’anni, o semplicemente perché ci fanno sentire anziani, e The Bourne Identity non è sicuramente l’unica opera del periodo a essere invecchiata in questo modo, ma il film di Liman spicca in particolar modo perché al contrario il resto della confezione non mostra per nulla i suoi anni, e anzi li porta meglio di quanto facciano i successivi capitoli di Paul Greengrass. Da un po’ di tempo ormai si parla di un possibile sesto film con Matt Damon: potrebbe essere l’occasione per aggiornare l’armamentario di Bourne.