Thanksgiving è un gran bell’esercizio di stile
Thanksgiving non aggiunge nulla al panorama degli slasher, ma è confezionato alla grande e gustosamente ultraviolento
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LEGGI – Thanksgiving, la recensione
Thanksgiving e l’amore per gli slasher
Nato a partire da questo ormai arcinoto finto trailer uscito nel 2007 insieme nel double bill di Grindhouse firmato Tarantino/Rodriguez, Thanksgiving è… quasi esattamente quello che prometteva all’epoca, ma stirato a lungometraggio. È uno slasher che più classico non si può, come si addiceva al tempo a un progetto che omaggiava il presunto cinema di serie B e inferiori, e in quanto tale ne rispetta tutte le regole:
un killer mascherato la cui identità e motivazioni sono i misteri centrali del film
una piccola città di provincia molto legata alle proprie tradizioni e nella quale si conoscono tutti
un gruppo di adolescenti che ricoprono ciascuno un ruolo predefinito in questa commedia della morte, come già spiegato mirabilmente da Drew Goddard in Quella casa nel bosco (Cabin in the Woods)
famiglie idilliache ma segretamente disfunzionali che fanno da contorno ma servono anche a fornire motivazioni ai protagonisti e al killer
un’escalation di omicidi che prevede che i primi a morire siano persone di cui allo spettatore non frega nulla, e che servono più che altro per definire l’immaginario e il modus operandi del killer
Et cetera: potremmo andare avanti ancora per svariati punti di questo elenco, ma il discorso dovrebbe essere chiaro. Eli Roth ha deciso di fare un Halloween, un Venerdì 13, un Natale di sangue ma ambientato durante il Ringraziamento, e di farlo senza sgarrare, senza cedere al citazionismo e alle inevitabili (nel 2024, ma nello slasher dai tempi di Scream) tentazioni meta- e postmoderne. Thanksgiving è un film che ha pochissimo rispetto per il corpo umano ma tantissimo per la quarta parete e per le regole del gioco: è per una volta l’approccio giusto da parte di Roth, che qui si concede di esagerare solo in un paio di sequenze nelle quali sembra gridare “guardate come sono bravo e pieno di idee!” – e sono comunque gran belle sequenze, e gliele si perdona.
Essere killer mascherato oggi
Ancora più azzeccata, e persino sorprendente, è la scelta di non abbandonarsi alla tentazione di ricalcare lo slasher anni Ottanta/Novanta in ogni sua parte: Michael Myers o Jason Voorhees non si sono mai dovuti scontrare con il potere degli smartphone, per esempio, che in Thanksgiving invece abbondano e vengono usati nel modo in cui ci si aspetta che vengano usati negli anni Venti, diventando anche parte integrante della trama e del piano del killer. In un’epoca di nostalgia canaglia per quanto era più bello il mondo quarant’anni fa, Eli Roth sceglie invece di accettare che sia passato del tempo e di reimmaginare certi elementi classici del genere in un contesto contemporaneo.
L’efficacia di questa scelta è evidente soprattutto nella sequenza iniziale, straordinaria, quella del massacro al centro commerciale che è una potente e leggibilissima satira politica ma anche una reimmaginazione degli zombie romeriani; è un inizio fulminante che fa quasi sperare che tutto il film prosegua su quella scia. Quasi, perché poi facciamo la conoscenza di John Carver.
Thanksgiving e il gore
Se c’è un tocco personale che Eli Roth ha deciso di portare allo slasher con Thanksgiving è l’ultraviolenza. John Carver non è il classico killer mascherato da horror da piattaforma contemporaneo, che uccide con banalissime coltellate e a volte persino fuori quadro. No, John Carver è uscito dai film più efferati di Eli Roth, ha consumato la VHS di Hostel ed è l’unica persona al mondo che ha amato Green Inferno pur avendolo trovato un po’ troppo educato. John Carver non si limita ad ammazzare la gente: la ammazza male, e Roth ci gode, e soprattutto ci tiene a farcelo vedere nei dettagli.
Chi è cresciuto con gli slasher primigeni, chi magari ha avuto la fortuna di assistere all’uscita in sala di Non aprite quella porta, non rimarrà forse troppo sconvolto dalla quantità e qualità della violenza presente in Thanksgiving, ma non potrà che apprezzare il coraggio e l’amore per le cose disgustose del suo regista. Chi invece fa parte della generazione post-Scream potrebbe subire uno shock culturale: gli slasher sono definiti soprattutto dai loro omicidi, e un killer mascherato dalla sua creatività; i twist di trama, le rivelazioni sconvolgenti, i rapporti tra i personaggi sono comunque secondari, per quanto graditi se ben scritti. È una regola che il genere si è un po’ dimenticato, e che Eli Roth ci tiene invece a ribadire ad altissima voce.
Di fronte a tutto questo amore sconfinato per il sangue e le budella, viene facile perdonare tutti i difetti e difettucci di Thanksgiving, a partire da un montaggio fatto da scimmie urlatrici sotto crack. Perché comunque è un film di Eli Roth che Eli Roth ha deciso di approcciare rimboccandosi le maniche e dimostrando quanto ci sa fare con il cinema che ama. Nessuna mania di protagonismo, nessun tentativo di sperimentare o fare altro: le cose che vengono meglio a Roth sono quelle spontanee, grezze non tanto nella realizzazione quanto proprio nel modo in cui sono concepite. E per quanto stiloso e ben fotografato, Thanksgiving è un film grezzo, qualcuno direbbe addirittura viscerale.
Grazie Eli, ci voleva.
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