Tetsuo compie 30 anni, l'esordio amatoriale più ambizioso e influente di sempre

Tetsuo è l'esordio a budget zero di Tsukamoto che trovò il successo a Roma. Uno dei film più influenti, spiazzanti e innovativi di sempre

Critico e giornalista cinematografico


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Quando arriva Tetsuo (1 luglio 1989 in Giappone) il periodo d’oro del body horror è al tramonto e questo film incredibile di 74 minuti lo chiude con una punta incendiaria che sarà impossibile da superare in esagerazione, innovazione, audacia e mancanza di rispetto per qualsiasi forma di tradizione. Arrivato 12 anni dopo Eraserhead, Tetsuo è contemporaneamente il film più strano e l’opera più significativa con cui un cineasta abbia esordito negli ultimi 30 anni.

Non solo, l’esordio nel lungometraggio di Shinya Tsukamoto è uno dei film più brutali e aggressivi nei confronti dello spettatore di tutti i tempi, una scossa elettrica nel braccio che alla fine degli anni ‘80 mette il punto definitivo sul culto del corpo (massacrandolo e affermandone il suo status di vittima designata di fronte al culto del metallo) e annuncia l’arrivo del decennio digitale con un’opera tutta analogica.

Quella di Tetsuo però è anche una storia che tocca l’Italia perché il film esordisce al Fantafestival di Roma, manifestazione di genere un tempo fondamentale e frequentatissima, dove viene subito capito e lanciato. 30 anni esatti fa questo film veniva proiettato per la prima volta a Roma e senza sottotitoli. La lavorazione era stata così assurda e così povera, così lunga e sfiancante (18 mesi!) che alla fine non c’erano i soldi per i sottotitoli e quindi il film era stato inviato senza. Sono dinamiche che raccontano di un’altra era del cinema (anche se erano solo 30 anni fa) e della sua fruizione, e che oggi sarebbero impensabili. Nondimeno Tetsuo, che invero non è che abbia così tanti dialoghi e sono più che altro concentrati all’inizio e alla fine, fu selezionato e alla proiezione fu un successo incredibile.
La potenza delle sue immagini ma soprattutto del montaggio supera tutto.

Tsukamoto è un talento tale che non servono parole per capire la trama. Un impiegato tempestato di visioni di macchinari nota un giorno un pelo della barba metallico e comincia ad essere sempre più ossessionato dal metallo. Lentamente sta diventando lui stesso di metallo e la discesa nella mutazione definitiva (nella quale non sarà solo) sarà un vero e proprio delirio. Cambiare e trasformarsi non è piacevole e non è indolore, soprattutto viene tutto dalla testa. La mutazione di Tetsuo è fatta di carne lacerata ed è qualcosa a metà tra l’organico e il metallico, l’uomo nuovo che si unirà con i suoi simili per conquistare il mondo come un Transformer a budget zero (questo sembra alla fine), è effettivamente il peggior incubo possibile e non il sogno di una nuova umanità.

Immagini di profonda carnalità, amplessi sessuali consumati vicini, appoggiati o proprio a ridosso di oggetti di metallo e l’immancabile trivella al posto del fallo che spunta improvvisamente maciullando tutto quello che incontra. Tetsuo non fa sconti, non ha limiti e non si ferma davanti a niente, è la più completa e profonda rappresentazione delle ansie verso la vita moderna in una confezione horror girata come un film sperimentale.
Sei anni dopo poi Tsukamoto girerà Tokyo Fist con cui sarà ancora più diretto e chiaro nel rappresentare questa sua forma di terrore unico nei confronti dell’incontro tra la materia molle (la carne) e quella dura (l’acciaio, il cemento) che la vita nella città inevitabilmente propone ogni giorno, anche solo visivamente, tuttavia Tetsuo ha già tutto, gettato in faccia allo spettatore con budget ridicoli.

L’idea, si capisce, è di continuare il discorso di Cronenberg, quella maniera di intendere il body horror e di usarlo per ragionare sulla “nuova carne”. Sette anni prima Videodrome aveva raccontato in fondo qualcosa di simile, la storia di un uomo che viene contaminato da un virus che lo muta (o forse lo sta solo immaginando). In quel film Cronenberg univa umano e sintetico passando per le immagini televisive, James Woods entra in un monitor che trasmette l’immagine di labbra giganti, viene “programmato” inserendogli in una gigantesca vagina che gli è comparsa nello stomaco una VHS, spara con una pistola di carne che gli ha sostituito la mano e via dicendo. Le immagini sono la nuova carne e la vecchia deve adeguarsi. In Tetsuo (che ad un certo punto verso la fine fa comparire proprio la scritta NEW WORLD in caratteri occidentali) è il metallo la nuova carne. Decenni dopo Tsukamoto confesserà riguardo Cronenbergalle volte tra me e me lo chiamo papà”.
Ma c’è di più, quei 20 minuti finali di Tetsuo, pura pasticca da rave ante litteram, puro delirio post-psichedelico nichilista di trucco, ansie e disperazione con un missaggio audio impensabile per un film amatoriale, non appartengono a Cronenberg e sono una novità completa.

Usando parti di vecchi televisori e una stop motion molto grezza e rapida, Tsukamoto finisce la terribile avventura del suo protagonista, cioè la storia del suo lento e terrificante mutare, con un viaggio in avanti. È pura avanguardia grezza, puro istinto di filmare di un uomo di 28 anni con due cortometraggi sulle spalle che con una videocamera 16mm e usando se stesso come protagonista, tenta un’impresa che parrebbe impossibile a chiunque (sulla carta è un film da milioni) per mettere in scena fobie profondissime e una volta finito spedisce questo film dall’altra parte del mondo, in un festival di genere a Roma, per trovare successo con un pubblico prettamente romano che lo vede senza sottotitoli. Se non è una delle più incredibili parabole di cinema questa io non lo so.

Ad oggi quella potenza così grezza non si è più vista in nessun esordio, quel desiderio così profondo di riprendere le avanguardie giapponesi degli anni ‘60 (Koji Wakamatsu su tutti) e frullarle fortissimo, alla massima potenza, fino a che non si distinguono più le solite figure e tutto è trasfigurato in un pasticcio vitale, febbrile e terrificante, fino a che diventa impossibile notare la povertà di un film tutto camera e cucina dal budget ridicolo è un miraggio. Si rimane ancora estasiati dalla maniera in cui lo stesso montaggio pare attraversato dalla corrente elettrica, dall’elettromagnetismo che sta mutando il protagonista in qualcosa di metallico e sta contagiando tutti quelli con cui entra in contatto. Si rimane ancora spossati, 30 anni dopo, dall’idea pazzesca di un mondo così cambiato, così diverso, così pieno di oggetti, edifici e costruzioni di metallo da cominciare a pretendere che anche l’uomo che lo abita lo sia. Lo voglia o no.

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