Stromboli (Terra di Dio) ha 70 anni ed è ancora il film italiano più moderno

Quando Stromboli (Terra di Dio) esce inizia la grande fase di sperimentazione di nuovi linguaggi del cinema italiano. Eppure oggi è forte come ieri

Critico e giornalista cinematografico


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Stromboli (Terra di Dio) ha 70 anni ed è ancora il film italiano più moderno

In Italia nessuno ha cercato metodicamente di creare un nuovo modo di fare cinema, o forse è meglio dire “di superare quello tradizionale”, come ha fatto Roberto Rossellini con la trilogia di film sul matrimonio (oltre a Stromboli anche Europa ‘51 e Viaggio in Italia). Film possibili solo grazie al fisico fuori dai canoni nostrani di Ingrid Bergman che ogni volta viene messo a contatto con una realtà altra, diversa, e da questo contatto trasformata.
Era criticatissimo Rossellini per avere abbandonato il neorealismo, l’impegno e la militanza, criticato rigorosamente prima che i film uscissero, e invece continuava ad esplorare il rapporto tra personaggio e paesaggio, solo che lo faceva con tecniche e idee nuovissime.
Ma del resto Truffaut, che è stato assistente di Rossellini per anni, lo diceva che non esiste un cinema italiano, non c’è una scuola unica o uno stile unico e riconoscibile.

Come noto Rossellini usciva da una storia sentimentale con Anna Magnani e sul set di questo film co-prodotto con gli americani sarebbe entrato in una storia con Ingrid Bergman, la quale soffriva del problema di dover fare film sempre più grandi (diceva Hitchcock) di dover affrontare sfide sempre superiori e dover avanzare ad ogni lavorazione. Motivo per il quale dall’America veniva nel posto in cui il cinema veniva rivoluzionato. Senza quest’incontro non sarebbe stato possibile realizzare un film come Stromboli (Terra Di Dio) che come per i casi migliori non sembra nascere da una storia ma da immagini, dalla voglia e dal piacere di filmare un corpo nordico come quello di Ingrid Bergman in un posto selvaggio come Stromboli.

stromboli filo spinato

La storia è essenziale: una donna lituana dal cognome svedese di 26 anni (la Bergman ne aveva 35 in realtà), prigioniera in un campo italiano, non trovando modo di fuggire in Sudamerica opta per l’unica altra possibilità d’uscita: sposare una delle guardie italiane. Li vediamo corteggiarsi tra le reti e il filo spinato e poi arrivare a Stromboli. Già è evidente che lei è più sofisticata di lui e già la decisione appare folle: una donna evoluta ed emancipata che si condanna a vivere in un contesto retrogrado. In questo film in cui niente è detto capiamo subito dall’abbigliamento, dall’atteggiamento e dai modi che Karin (il nome della protagonista) è libera ma anche che dovrà ricominciare da capo il processo d’emancipazione in quell’isola da cui non si può scappare. Anche solo l’arredamento della casa è un problema, figuriamoci uscire da sola o relazionarsi alle altre persone dell’isola.

In quello che oggi sarebbe un caso esemplare di glocal (qualcosa di estremamente specifico e locale che ha potenzialità globali), Stromboli (Terra di Dio) faceva il lavoro dei film di Bresson, cioè quello di portare della trascendenza sulla Terra, riprendere i luoghi per quello che sono ma riuscendo a trasfigurarli in posti spirituali stando nei quali non si può rimanere indifferenti, e al tempo stesso levava al cinema tutto quello su cui si era sempre basato. In primis i dialoghi. I due vivono sull’isola da marito e moglie ma tutto va immediatamente male, lui è un pescatore ignorante con limitatissima conoscenza dell’inglese, lei una donna emancipata e libera in un paesino in cui tutte le altre vestono di nero. Ha voglia di fare e non gli viene consentito niente, deve stare zitta e a casa ma non ne ha intenzione, è alta e slanciata in un paesino minuscolo. Eppure nessuno dei dialoghi del film parla di questo, nessuno dei personaggi affronta mai i temi della storia.

stromboli bergman

Anche la fotografia e il montaggio lavorano allo stesso modo, non abbelliscono, non sottolineano non sono parte del comparto espressivo. Sembrano voler documentare mentre di soppiatto lavorano ad una creazione di senso che pare quasi contrabbando per come avviene di nascosto dallo spettatore. A lavorare è il complesso delle inquadrature e dei momenti, la recitazione e la somma delle singole parti. Karin cerca in tutti i modi di adeguarsi alla vita sull’isola, vuole stare vicino al marito e va a trovarlo durante la mattanza dei tonni (nel video qua sotto a 17.00). Quella scena in cui il massimo del naturalismo e del documentaristico si trasforma in modi misteriosi in un’esperienza mistica, in una rivelazione, è un esempio perfetto e forse la punta più alta di un film che di certo non parla di pesca e tonni (!). Vediamo la pesca e capiamo altro. È insomma dando colpi a lato, è riprendendo altro che Rossellini racconta il matrimonio come un’unione impossibile, una gabbia che affianca di due solitudini. Dov’è quella tempesta che Karin prova (inorridita) di fronte alla mattanza? Quella tensione e quel momento così panico fanno risaltare il deserto del resto della sua vita sull’isola.

https://www.youtube.com/watch?v=aZdtrR7t8Bg

È l’Italia, uno dei paesi più importanti d’Europa, eppure è anche un posto in cui è impossibile vivere per una donna civilizzata, in cui le vie e le casette sembrano una prigione, la casba. Andando avanti Karin peggiora la sua situazione forzando la propria libertà, frequentando altri uomini e anche il prete. La sua infelicità è quello che sta più a cuore a Rossellini (in tutta la trilogia sul matrimonio gli uomini quasi non esistono). Le immagini di lei con i suoi abiti leggeri in questa terra di lava che racconta una solitudine quasi funerea, la difficoltà ad entrare in contatto con altri esseri umani e il rapporto aspro con la natura del luogo sono l’apertura del cinema di Antonioni che arriverà 10 anni dopo con L’avventura (ma non sarà mai così perfetto).

Stromboli vulcano

Il tormento interiore provocato dalla visione della mattanza è forse più forte nello spettatore che in Karin, ma lo stesso dà il via alla sua trasformazione. È incredibile come un film di 70 anni fa che parla di qualcosa che è cambiato così tanto come il matrimonio, l’unione e la comunione di una vita, e che per giunta lo faceva da un punto di vista così poco contemporaneo come quello cattolico, continui a parlare così chiaramente. Per Karin, donna degli anni ‘50, uscire dal matrimonio è come attraversare un vulcano. Sarà quella alla fine la sua decisione. Imprigionata, impossibilitata ad andarsene e incinta, ha una sola via d’uscita: scalare il vulcano e scendere dall’altra parte. Arrivata in cima la colgono i fumi, sembra morire, vuole salvare il bambino che ha in grembo. È troppo in là per tornare indietro, ancora troppo in giù per scavallare e dirsi salva. Ma nonostante il tormentò, addormentandosi si risveglierà col sereno.

stromboli mattino

Non c’è bisogno di essere religiosi per apprezzare questa visione del mondo. Non c’è bisogno di essere buddisti per apprezzare la ricerca mistica del cinema asiatico. Non c’è bisogno di essere cattolici per tremare di fronte a ciò che fa tremare Rossellini. Nelle nebbie del vulcano Karin pensa di morire, è un cattolico che racconta i dubbi, esitazioni e il dolore nell’uscire da un matrimonio. Lassù, dove non c’è niente ed ogni speranza è perduta, gli appare l’unico dettaglio che può confortarla (o forse che può confortare Rossellini). La croce.
Di nuovo, nessuno l’ha detto ma il film ha detto tutto ciò che deve dire sul suo argomento, e finisce lì, con un finale sospeso eccezionale che lascia una vita da vivere e da decidere.

Stromboli Bergman vulcano

In un caso evidente di casting che crea il film, Ingrid Bergman, più alta dell’attore che interpreta suo marito, 100 anni avanti come volto rispetto alle paesane, non è solo una scelta centrata ma è la ragione per la quale si fa un film simile. Come detto inizialmente ci fosse stata Anna Magnani, volto e corpo decisamente più vicini ai locali, meno “altro” da loro, e visivamente non così distante, meno moderna e cosmopolita, il film non sarebbe stato solo meno potente, avrebbe proprio dovuto raccontare altro. Invece così nel 1950 trova il contrasto cruciale del dopoguerra (il retaggio pre-industriale e le spinte urbane che verranno esplorate di più negli anni ‘60) e lo espone nella maniera più limpida. Ed è tutt’oggi lo scontro tra ciò che siamo sempre stati e quello che tendiamo sempre di più a diventare.

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