Stranger Things, o del perché due trentenni hanno battuto JJ Abrams nel suo stesso gioco

Stranger Things riesce ad andare oltre alla nostalgia sottintendendo un “patto generazionale” fra nonni (Spielberg/Lucas) e nipoti (i Duffer) che taglia fuori i padri (Abrams)

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Stranger Things sta piacendo a tutti; scandagliando la rete non si trova mezza critica negativa.

Sì, forse le testate più ciniche accusano la serie dei Duffer di essere costruita col bilancino ma, in generale, le avventure di Eleven e dei Goonies… ehm... di tre ragazzini amanti dei giochi di ruolo hanno una percentuale di gradimento che manco Papa Francesco con un cucciolo di panda.

Al contrario di serie ultra mainstream come Orange is the New Black o House of Cards, però, Stranger Things ha una particolarità: il suo target è prevalentemente compreso fra i maschi che hanno appena compiuto 25 anni e che ne stanno per compiere 35. Per intenderci, se le malefatte del Presidente Underwood appassionano tanto lo studente diciannovenne di scienze politiche che la madre di famiglia con tre figli che fino all’altro ieri guardava solo Don Matteo, le cose più strane accadute a Hawkins negli anni ’80 non hanno la stessa presa. Se credete che stia esagerando fate un semplice test: recuperate un amico ventenne di vostra sorella (tutti hanno una sorella ventenne, se non l’avete siete voi e, dunque, questo articolo vi servirà a molto poco), strappate per un attimo vostra madre alla dittatura di Barbara D’Urso e metteteli davanti a Stranger Things. Le reazioni possibili saranno due, una generica noia oppure un vago interesse dato solamente dagli sviluppi della trama. In entrambi i casi non aspettatevi che urlino al capolavoro o piangano alla quinta citazione di Firestarter (indizio: come per le altre quattro, l’avrete colta solo voi).

Che gli anni dieci fossero, in sostanza, un reboot degli eighties ce n’eravamo accorti più o meno dall’annuncio di Episodio VII, poi è arrivato Ghostbusters, poi il neoautoritarismo russo e, infine, Donald Trump, ma non divaghiamo. Nella generale operazione nostalgia che lo show business sembra aver intrapreso, Stranger Things emerge, in sostanza, per un motivo: gli ideatori, nonché registi (di tutti gli episodi tranne due), nonché sceneggiatori della serie non sono due quarantenni che iniziano a imbolsirsi e rimpiangono la spensierata campagna americana dell’infanzia (sì JJ Abrams, sto parlando di te); i Duffer hanno 32 anni, quando Star Wars uscì al cinema probabilmente i loro genitori non si erano manco conosciuti e, con altrettanta probabilità, il primo film che hanno visto al cinema fu Bianca & Bernie nella Terra dei Canguri, anno domini 1990.

I Goonies, E. T., Poltergeist, Alien, Explorers, Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, Stand By Me e tutti gli altri film citati?—?magistralmente?—?in Stranger Things erano giù usciti al cinema da anni, facevano già parte dell’immaginario nerd. Posso sbagliarmi ma sono abbastanza sicuro che i Duffer abbiano scoperto Spielberg, Lucas, Columbus e Joe Dante grazie a qualche VHS passata sottobanco da cugini o zii più grandi.

Come molti figli degli anni ’90 hanno fatto propria una narrativa già radicata in opposizione al deserto culturale che sono stati gli ultimi due decenni. Mentre Hollywood falliva nel tentativo di allevare una nuova generazione di cantastorie, la fiaccola del grande cinema popolare rimaneva accesa grazie agli allora ragazzini che facevano passare e ripassare nel videoregistratore i film di cui sopra.

Arrivati finalmente all’età in cui un manager può quasi pensare di prenderti sul serio (tradotto: l’età in cui indossando una giacca non ti chiedono più se stai andando alla tua prima comunione), gli ormai trentenni di cui sopra si sono finalmente appropriati di quell’immaginario declinandolo in un presente fatto di streaming, social e binge watching.

Il più diretto antecedente di Stranger Things è Super 8, firmato dal solito JJ Abrams con Spielberg alla produzione, la Industrial Light & Magic agli effetti speciali e un cast di giovani talenti fra cui Elle Fanning. Il film dell’allora futuro regista di Star Wars non è malriuscito ma, a fine visione, mentre i titoli di coda scorrono e la vicenda si è risolta al meglio rimane una sensazione strana, la stessa che si prova sgranocchiando le patatine della Lidl. Non è che siano cattive, ma gli manca qualcosa rispetto alle San Carlo originali.

In generale tutto il cinema di Abrams ha questo retrogusto, a volte si sente fin troppo (Into Darkness: Star Trek), altre meno (Star Wars: Il Risveglio della Forza); Ortolani, nelle sue geniali recensioni, usa la gag dell’occhiolino come se il regista volesse a tutti i costi dare di gomito allo spettatore dicendogli “Ehi, vedi, io sono come te, quella citazione non l’ho mica messa a caso!”.

ortolani

Stranger Things non funziona così, non c’è l’ansia da prestazione che spesso mette i figli (Abrams) in diretta competizione con i padri (Lucas/Spielberg), il rapporto qui è più simile a quello fra nonni e nipoti. I Duffer amano tantissimo il cinema di trent’anni fa ma, non avendolo vissuto in prima persona, riescono a essere più cinici, torcendo se necessario il canone al loro volere.

Non è un caso che alcuni momenti di Stranger Things, in particolare avvicinandosi all’ottimo finale, siano permeati di un cinismo che avrebbe fatto impallidire tanto Spielberg quanto Abrams, allo stesso modo le classiche relazioni fra figli ipersensibili e genitori distanti qui vengono portate alle estreme conseguenze e, di fatto, non risolte con una chiosa catartica ma, anzi, estremizzate e rese, se possibile, ancora più dolorose. Gli unici adulti che si salvano sono la madre disfunzionale Winona Ryder e l’ancor più irrisolto sceriffo Hopper di David Harbour, tutti gli altri vanno dall’anaffettività malvagia di Matthew Modine all’irrilevanza quasi farsesca del padre di uno dei protagonisti. Pure le cotte adolescenziali che Spielberg ha sempre trattato con disarmante ingenuità in Stranger Things si fanno molto più ruvide, mostrando come i Duffer non si siano mai fatti abbindolare dalla retorica ultraottimista di certo cinema.

Ora, in attesa di una possibile seconda stagione che?—?speriamo?—?non rovini tutto il buon lavoro fatto, ci troviamo fra le mani quella che forse è davvero la prima serie postmoderna nel senso più completo capace, citando il solito Umberto Eco, di rielaborare il passato con ironia, in modo non innocente.

Stranger Things 2

Ecco perché Stranger Things non è mainstream e non potrà mai esserlo, perché non taglia i legami con la complessità del passato ma li trasfigura, non è il Marvel Cinematic Universe che?—?per essere libero?—?ha annullato ogni connessione con la carta stampata, non è Il Signore degli Anelli che?—?per arrivare al cinema?—?ha trovato un doloroso compromesso fra la complessità della Terra di Mezzo e le necessità di Hollywood.

Così come Il Nome della Rosa pretende dal lettore una certa conoscenza del mondo medievale ma, al tempo stesso, chiede pure il gusto per i gialli moderni, Stranger Things non si esaurisce nella nostalgia dei bei tempi andati, riesce ad andare oltre sottintendendo un “patto generazionale” fra nonni (Spielberg/Lucas) e nipoti (i Duffer) che taglia fuori i padri (Abrams) e fa scattare in avanti per davvero il media cinematografico/televisivo.

Sarò strambo ma finendo la serie mi è venuta la voglia matta di vedere uno Star Wars diretto dai fratelli Duffer. Dubito accadrà a breve ma, per ora, posso sperare in una seconda stagione di Stranger Things il prima possibile.

P. S: Ho volutamente tralasciato tutti i riferimenti a Stephen King per concentrarmi su quelli cinematografici, va da sè che tutto il ragionamento si può fare pure sostituendo l’autore di Stand by Me a Spielberg/Lucas.

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