Staying Alive, quando le botte incontrarono la danza

Staying Alive è la dimostrazione che Sylvester Stallone aveva capito tutto: un ring o un palco sono la stessa cosa

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Questo speciale su Staying Alive fa parte della rubrica Tutto quello che so sulla vita l’ho imparato da Sylvester Stallone

Inizialmente avevamo deciso di saltare Staying Alive – ve ne sarete già accorti, visto che il 1983 ce lo siamo già lasciati alle spalle da un po’. L’idea era quella di ripercorrere solo la carriera dello Stallone attore, più che altro per semplicità, e di coprire non proprio tutti, ma solo i suoi film più significativi. In questi giorni però compie quarant’anni il suo quarto film da regista, e a questo punto non potevamo esimerci dal fare un passo indietro nella tempolinea e dire due parole su quello che, sulla carta, all’epoca ma anche oggi, è all’apparenza uno dei progetti più strani ai quali Sly abbia mai partecipato. Basta dare una seconda occhiata un po’ più approfondita, però, per rendersi conto che c’è un filo rosso nemmeno tanto sottile che collega i vari Rocky e Rambo (più i primi che i secondi) con il sequel di La febbre del sabato sera.

Concepito immediatamente dopo il successo del film di John Badham, Staying Alive ci mise un po’ a prendere forma. Qualche anno, per la precisione, perché Stigwood e Wexler, rispettivamente produttore e sceneggiatore della Febbre, faticarono a lungo a trovare la quadra e a decidere quale storia raccontare – anche per via dei dubbi di John Travolta sulla direzione che avrebbe dovuto prendere la vita di Tony Manero. La svolta arrivò quando lo stesso Travolta vide Rocky III e decise che quello che ci voleva era un regista che infondesse la stessa energia e lo stesso ritmo nel film: riuscì quindi a convincere Sylvester Stallone a riscrivere lo script e a mettersi dietro la macchina da presa.

Sylvester Stallone, al tempo, vale la pena ricordarlo, non aveva ancora avuto esperienze dirette con la musica applicata ai film: veniva dal primo Rambo, da Fuga per la vittoria e appunto da Rocky III, e sembrava avviato verso una carriera scintillante ma monodimensionale. Ma Stallone è sempre stato anche un autore, uno al quale i generi interessano relativamente: gli piacevano più che altro le storie, ed era pronto a uscire dalla sua zona di comfort per raccontarne una che gli piacesse. In più aveva un musicista in famiglia (il fratello Frank, che infatti partecipò a Staying Alive meritandosi anche una particina e qualche linea di dialogo), e soprattutto capiva che c’erano punti di contatto evidenti tra i combattimenti che gli piaceva inscenare nei Rocky e le coreografie di un numero di danza.

Decise quindi di affrontare il progetto come avrebbe fatto con un nuovo film sul signor Balboa. Staying Alive recupera il personaggio di Tony Manero, certo, ma è una storia 100% stalloniana: quella di un uomo che ha talento ma che non è per forza il migliore di tutti, di un tizio sottovalutato che grazie alla sua determinazione riesce a farsi strada in un mondo di squali e a meritarsi i suoi metaforici cinque minuti di celebrità. È una mossa coraggiosa perché sostanzialmente resetta tutto quello che era successo nel primo film – che comunque, c’è da dire, si chiudeva nel modo perfetto per lanciare il suo sequel, con la decisione di Tony di abbandonare Brooklyn per trasferirsi a Manhattan.

Qui è dove lo incontriamo all’inizio di Staying Alive: il suo talento non gli ha portato il successo sperato, e il personaggio di John Travolta vaga di scuola di ballo in scuola di ballo, in cerca di un provino, un’occasione, un raggio di luce. Ha una nuova amante (Jackie/Cynthia Rhodes, il simbolo dei film ballerini degli anni Ottanta) e poco altro. Soprattutto ha ancora tracce del suo caratteraccio (un eufemismo, considerato che nella Febbre tentava di stuprare la sua co-protagonista), è ancora immaturo nonostante siano passati sei anni dal film precedente, ed è chiaro che il trasloco non gli ha davvero cambiato la vita, ma ha solo spostato il luogo del suo fallimento di qualche chilometro.

Il Tony Manero di Staying Alive è quindi una sorta di ibrido tra il ballerino affascinante ma francamente insopportabile del primo capitolo e il classico personaggio stalloniano di quegli anni, sconfitto dalla vita ma sempre convinto di potercela fare grazie a una buona dose di applicazione e pervicacia. La svolta per lui arriva quando incontra Laura (Finola Hughes), una che parla con l’accento inglese e quindi è per forza intelligente, come sostiene lo stesso Manero. Laura è bella, disinibita e disinteressata ai legami duraturi: è una player tanto quanto lo è lui, ma con in più una buona dose di cinismo e senso della realtà che mancano alla sua controparte maschile, ancora convinta che basti un sorriso o un colpo d’anca per far cadere il mondo ai suoi piedi.

Il film diventa così un triangolo amoroso, una piramide nella quale la gerarchia tra vittime e carnefici continua a cambiare: Laura usa Tony, Tony usa Laura, Tony usa Jackie (e la povera Jackie non usa nessuno, perché è l’unica persona civile del film). Tutto allo scopo di partecipare in uno spettacolo dal clamoroso titolo di Satan’s Alley, che per Manero è la grande occasione attesa da tempo mentre per Laura è solo un altro lavoro. Chiunque abbia visto un qualsiasi Rocky può probabilmente prevedere ogni singolo snodo di trama di Staying Alive: l’unica differenza è che i personaggi non si esprimono su un ring ma su un palcoscenico.

In questo senso, Staying Alive si può quasi vedere come una prova generale di Rocky IV: è un film che sfrutta il linguaggio musicale (anche visivo, considerato che su un’ora e mezza di durata almeno un terzo consiste in quei classici montaggi stalloniani che sono antenati dei videoclip da MTV) per raccontare la sua storia, che usa i dialoghi con relativa parsimonia e preferisce che a parlare siano i corpi degli attori. In quanto prova generale è tutt’altro che pienamente riuscita: i momenti musicali sono troppi e soffocano quel ritmo che Travolta sperava che la regia di Sylvester Stallone potesse portare, e il risultato è un film-collage nel quale le coreografie e i balli la fanno da padrone a scapito di tutto il resto.

Resta però un film nel quale Stallone mette in mostra alcune delle sue doti migliori e dimostra di sapere applicare le sue idee anche a contesti diversi da quelli dell’action o del film sportivo. Fa sorridere con il senno di poi pensare che Staying Alive fu demolito dalla critica perché troppo sognante ed esagerato, privo di quel grezzo realismo stradaiolo del primo capitolo; fa sorridere perché è chiaro che non si tratta di un errore ma di una precisa scelta stilistica del regista, che sostituisce i riflettori del ring con le luci del palco ma che infonde in ogni numero (in particolare quello, tamarrissimo, che chiude il film) della stessa energia e rabbia che alimentavano i film di Rocky. C’è chi si lamentò perché c’erano troppi neon, troppo fumo, troppi raggi laser e troppa poca umanità; c’è persino chi (Roger Ebert, non uno qualunque) lo criticò perché Tony Manero non litiga con la madre ma anzi le chiede scusa per il suo comportamento passato. Secondo noi questo significa non aver capito le intenzioni di Sly e la sua personale visione autoriale di come si racconta la storia di uno che non è il migliore, ma ha la ferma intenzione di diventarlo. Sarebbe bello dargli un’altra possibilità, quarant’anni dopo, perché si può dire tutto su Staying Alive ma definirlo “il peggior sequel di sempre” come molti hanno fatto significa ragionare per pregiudizi, e bocciare un’opera solo perché la visione del suo autore non coincide con quella che il pubblico si aspettava.

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