Squid Game: la sfida, quando la finzione è più credibile della realtà
La finzione di Squid Game racconta meglio la realtà di quanto non faccia il "reality" ispirato alla serie appena uscito su Netflix
Il commento sociale di Squid Game era interessante. Non era male vedere come i diversi tipi di disperazione di gente disastrata, sia nel gioco che fuori, avrebbero scavato nella parte più brutale dell’essere. La ragione per cui la serie è diventata un fenomeno globale è però un’altra che ben poco condivide con l’indagine sociologica. La curiosità di vedere a quali giochi, e quindi quali torture, sarebbero stati sottoposti i personaggi e quale morte gli sarebbe stata riservata. A questa deliziosa morbosità (deliziosa perché viene dalla finzione e resta nella narrazione) si aggiungeva il mistero di capire chi ci fosse dietro quei “giochi”.
Si può giustificare così parte del successo di Squid Game: essere riuscito a entrare nei discorsi dei media e dei bar. Avere agganciato gli spettatori di puntata in puntata attraverso il meccanismo di scoperta. Chi sopravviverà, che sfida ci sarà, che senso ha tutto quello che sta accadendo?
Squid Game: la sfida e la fragilità dei suoi personaggi
Squid Game: la sfida è ovviamente consapevole che la serie esista, e questa cosa funziona più del previsto quando ci sono delle variazioni al copione. L’idea migliore è quella di stupire i concorrenti con delle sfide che non ci sono nella finzione. Le aspettative dei partecipanti vengono sovvertite: ci si aspetta una prova, si fanno le squadre, ne arriva un’altra. Quando sono impegnati in quelle più note è come se le avessero già affrontate una volta: quando sono stati spettatori. Eccoli che leccano il caramello sudando per liberare la forma ad ombrello. Ecco alleanze e piccole strategie per avvicinarsi al montepremi. Una cifra veramente pazzesca: 4,56 milioni di dollari. 10 mila dollari a partecipante.
Come serie vuole, il grande salvadanaio si riempirà interamente man mano che i partecipanti saranno eliminati. Impossibile qui nella realtà non vedere una forte scrittura. Avviene nelle dinamiche del gioco quando i concorrenti sceglieranno, assurdamente, di eliminare un avversario invece che fare un favore che potrebbe portare a una futura alleanza perché: “Così sono 10 mila dollari in più nel montepremi e un avversario in meno!”. Una scelta strategica incomprensibile. Non sarà l'unica.
La regia cerca di trovare storie e personaggi da seguire. Lo fa anche piuttosto bene: c’è una coppia madre e figlio che movimenta un po’ la dinamica (anche se vedere la teatralità con cui quest’ultima si salva dal primo gioco spezza ancora una volta la spontaneità). Ci sono concorrenti che ricordano i personaggi della serie: basta notate come il signore più anziano ricordi Oh Il-nam, figura chiave della serie.
Senza una storia scritta da uno sceneggiatore, ma pilotata e piegata al montaggio, i concorrenti appaiono tutti un po’ mitomani, pieni di sé anche nell’elencare i propri difetti. L’idea forte di Squid Game era di mostrare la vera natura delle persone sotto pressione, dove possono vincere e perdere tutto. Ne La sfida invece oltre ai giochi e il montepremi ci sono le telecamere che forzano le reazioni delle persone. Come si fa a prendere sul serio dei concorrenti incapaci di svolgere le più basilari funzioni di sopravvivenza? C’è chi nella sezione “un, due, tre, stella” si ferma a gambe piegate (chiedendosi il perché di questa scelta). Altri due che vanno in crisi di fronte a un pelapatate perché non l’hanno mai usato con le carote (eh già!). Più che la corsa alla vittoria, appare una corsa a farsi vedere.
Un precedente illustre
Non serve un grande budget o dei teatri di posa immensi per fare un grande show. Prima di Squid Game c’era quel concentrato di bizzarria creativa che risponde al nome di Takeshi’s Castle. Più che sul ritmo, sulla narrazione, la trasmissione si concentrava sulla creatività delle prove e sui faticosi tentativi di passarle o fallire con dignità. C’era una genuinità che manca a Squid Game: La sfida, un reality che si prende più sul serio di quanto non faccia la serie da cui è tratto.
Chiaramente i concorrenti non possono morire. Cadono a terra quando gli esplode un sacchetto contenente sangue finto, rigorosamente nero per non turbare troppo gli spettatori. Un siparietto che lascia perplessi. Non tutti hanno lo stesso talento nel simulare il decesso. A questo punto perché non uscire di scena e basta? Invece La sfida continua a scimmiottare la serie, raccogliendo solo una frazione della sua tensione e del suo carisma.
Sono già uscite le prime notizie di concorrenti che sono stati male durante le riprese e che vogliono fare causa allo show. Tutto fa brodo, per dare un peso alla competizione, per far percepire la posta in gioco e la fatica a chi è seduto sul divano di casa.
Squid Game: la sfida è un passatempo che non riesce a replicare mai quello che invece la finzione riusciva a mettere bene a fuoco. L’unica cosa che si dimostra è la vera portata globale della serie, capace di attirare concorrenti di qualsiasi provenienza (con un occhio di riguardo al mondo anglofono, primo target) e di entrare nell’immaginario comune.
La riflessione sul denaro, la rappresentazione simbolica della disperazione causata dalla crisi economica, la ricerca della brutalità insita nell’essere umano, non vanno quasi mai a segno. Per chi ama e crede nelle storie la banalità di Squid Game: la sfida è una conferma: una buona finzione racconta meglio la realtà di quanto non faccia la realtà stessa.